Scrivere il Salento

Poesia di un gioco perduto

Giochi di strada

Un pezzo di pietra bianca, morbida, calcarea, buona per scrivere sull’asfalto.  La mano di una bambina. Traccia sicura un grande cerchio sbilenco al centro della strada, vuota, poche macchine la invadono.

Indossa un vestitino bianco, ai piedi scarpette con grossi buchi sul dorso per far passare l’aria, sembrano due occhioni.

Calde estati salentine di molti anni fa. La pietra scorre veloce, traccia altri quadrati, cinque sotto al grande cerchio; altri due ai lati del secondo riquadro.

Il tempo passa lento nei lunghi pomeriggi assolati; un mangiadischi gracchiante emana le note di una canzone in voga, parla dell’immensità.

Un altro bambino traccia numeri, un sette nel cerchio grande, poi il sei nel primo riquadro attaccato, il successivo viene diviso in due da una striscia verticale, nei due quadrati laterali un quattro e un cinque.

Le porte delle case sono protette da tende di canne che usano arrotolarsi in alto quando non servono, ma che d’estate restano distese sulle aperte case scostandosi a ogni passaggio.

Le ginocchia dei bambini sono ricoperte di grosse croste, fatto usuale e normale per quegli scapestrati monelli; il loro dna non era ancora adattato alla durezza dell’asfalto abituato com’era alla morbidezza della terra battuta d’un tempo.  I calzoni cortissimi poi non aiutano la difesa seppure agevolano la guarigione.

Gli ultimi tre quadrati vengono completati d’un batter d’occhio, con un tre, un due, l’uno. Ora occorre dotarsi di una piccola pietra piatta, sufficientemente dura da non rompersi durante il lancio, sufficientemente bilanciata da permettere tiri precisi e calibrati negli spazi numerati.

Una rumorosa 600 si avvicina tentennando, il nugolo di infanti si rifugia d’un tratto sul marciapiede; la ragazzina tentenna in equilibrio su una gamba appollaiata sul numero 3 … a malincuore desiste e raggiunge il marciapiede anch’ella.

La 600 passa, all’interno una cassetta stereo otto batte al ritmo di un cuore matto; un attimo e la strada torna libera a disposizione degli euforici proprietari; ora la discussione verte se far ricominciare la bionda signorina dal tre o se punirla per aver lasciato la posizione conquistata, per nessun motivo è permesso poggiare il piede a terra prima di aver raggiunto il sette.

Il gioco consiste nel lanciare la pietra sulle sette caselle numerate, partendo dalla prima. Se si riesce a piazzare il tiro nel perimetro della casella occorrerà andare a riprenderla poi saltellando su una gamba, un gioco di equilibrio tutt’altro che scontato.

Il battere di un’altra pietra scandisce il passare del tempo, rumori perduti sotto le mani di una donna intenta a separare le fave dal guscio comodamente sistemata al fresco dell’uscio di casa. Un lavoro di pazienza che oggi nessuno si permette più.

La bambina ha quasi raggiunto il traguardo della vittoria, il 7; la sua pietruzza è ben piazzata nel grande cerchio sbilenco, ora sarà sufficiente andare a riprenderla saltellando sulle sue scarpine con gli occhi incorniciate da lunghi calzettoni bianchi di cotone traforato.

Il mio amico Massimo in una foto di allora

Ha un non so che di sereno e gioioso il loro incedere, la felicità è palpabile, la tranquillità di quella generazione è scandita dai ritmi lenti di una vita perfetta. Loro sono ancora là e ci guardano straniti, non conoscono ancora le diavolerie che di lì a qualche anno ci avrebbero investiti. I loro figli non giocheranno più per strada, e quel che è peggio non potranno più godere del lento scorrere di quei felici pomeriggi; sono rinchiusi nelle case, appollaiati davanti alla luce accecante di una scatoletta di cui non esisteva nemmeno il nome.

La bambina ha vinto alza le braccia al cielo e coglie la sua semplice ricompensa; il tempo di gioire poi tutti a correre alla fontana, chi arriva ultimo beve dopo. Facce bagnate sui larghi sorrisi, nemmeno questo sapevano quei bricconi, che di lì a poco nessuno gli avrebbe più permesso di bere gratis.

E il gioco? Qualcuno serberà un ricordo in qualche meandro, è il bambino di allora che lo tiene accoccolato in qualche remoto cantuccio di memoria; come si chiamerà?

6 pensieri su “Poesia di un gioco perduto”

  1. Caro Gianfranco,

    ho rivisto la mia infanzia! La felicità e la spensieratezza di quel tempo che trascorreva lentamente. I nostri giochi, i nostri amici e la nostra vecchia città. Un mondo fatto di persone, un mondo meno distratto di oggi. Quella 600 con le stereo8, come mio padre che ne aveva solo due: una di Bruno Petrachi e l’altra di Miguel Iglesias che suonavano a ruota libera… E poi la campana, una sfida continua contro l’equilibrio e la velocità. Le croste sulle ginocchia e il refrigerio delle fontane (quelle col simbolo del fascio!).
    Grazie Gianfranco, mi hai fatto iniziare la giornata nel migliore dei modi!

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    1. 🙂 No no! Penso solo che in quegli anni (1982) l’Italia vinse i mondiali e io mi disegnavo le bandiere sui fogli di carta per appenderle al finestrino dell’auto… 🙂 🙂 🙂

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