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Gallipoli, il Malladrone e Gabriele D’Annunzio

di Augusto Benemeglio

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Chiesa di S. Francesco d'Assisi a Gallipoli (da Wikipedia)

1. Chiese di Gallipoli
Gradita la voce dell’acqua a chi è oppresso da nere sabbie, gradito il ricordo della riviera Nazario Sauro, dov’è la chiesa di San Francesco d’Assisi di Gallipoli, la chiesa del Malladrone, curva di luce nel tramonto, una delle tre sorelle chiese, a pochi passi l’una dall’altra, ciascuna con la loro livrea di carparo, miele e oro scuro.

Le Chiese di Gallipoli da sempre guardano in faccia il mare , poggiano sulle dodici colonne che sorreggono l’isola e guardano costantemente all’orizzonte per accompagnare i propri figli in mare, per sorvegliare il viaggio breve dei pescatori, o il lungo viaggio degli emigranti e dei guerrieri, viaggi dell’incertezza, della fralezza, della caducità dell’uomo, ma anche viaggi di una promessa di pace, benessere prosperità, viaggi della speranza, e del bisogno di stabilità, serenità, terraferma.

Sono chiese, quelle di Gallipoli, come antiche fanciulle, ricche di fascino e suggestioni, templi antichi di Atena, Afrodite, Era, che – scrive Antonio Errico “custodiscono il senso del radicamento ad uno scoglio e della proiezione verso il mare, lo stupore per l’oltre”.

E di fronte a loro, a meno di un miglio marino , ecco un altro mistero, l’Isola de gabbiani, Sant’Andrea, indecifrata e sola nella vaga notte di luna, ch’accende ancora una preghiera che sa di salnitro e speranza.

2. Don Armando Manno
Il 4 ottobre 2005, festa di San Francesco, ricordo il vecchio Don Armando , “papa Mazzola”, celebrare messa, con le mani tremanti (ormai era in pensione da diversi anni), in quella chiesa che l’aveva visto parroco per tanti anni. E poi in sacrestia a ricordare le maratone con don Tonino Bello, il “Caso Gesù” e la “ Santina di Gallipoli”, al secolo Lucia Solidoro, che , insieme, ( fu lui a fornirmi il materiale per il “dramma”) avevamo tentato di far rivivere nel cuore e nelle menti della gente gallipolina portandola sulla scena. C’è ancora la grande fotografia della pulzella di Gallipoli vestita di nero, con le varie reliquie, e un fascio incredibile di lettere (centinaia e centinaia di “grazie ricevute”). E subito dopo , eccoci presso il cappellone del Santo Sepolcro, detto degli spagnoli, fatto erigere dal castellano di Gallipoli, Don Giuseppe De La Cueva, in onore dei soldati spagnoli morti in Gallipoli. E’ lì che ci attende l’altro grande personaggio della chiesa, il Malladrone, la statua lignea crocifissa ormai famosa in tutto il mondo, capolavoro di un frate gallipolino, Vespasiano Genuino, artista religioso del XVII secolo che aveva un grande arco puro nella mente e mani piene d’amore e d’umanità. La “Santina” sembra di nuovo dimenticata, caduta nell’oblìo, mentre il Malladrone accresce la propria famigerata popolarità, è divenuto uno delle meraviglie di Gallipoli ( basta leggere i depliant degli itinerari turistici : “Venite nella città bella, ad ammirare la cattedrale, il mercato del pesce e il Malladrone”).

Malandrone, mal ladrone
Il Malladrone

3. Chi è il Malladrone?
E’ uno che non si pentì dei suoi misfatti, nonostante avesse vicino a sé, sul Golgota, “coast the coast”, o meglio croce a croce, Cristo in persona. Il Messia, che aveva invocato il perdono per i suoi nemici, che aveva predicato l’amore per tutta la vita, anche l’amore impossibile – “ama i tuoi nemici… e se ti schiaffeggiano su una guancia, tu porgi anche l’altra”, il più assurdo e il più splendido imperativo categorico del cristianesimo – lo perdonò ugualmente, non poteva non perdonarlo (io credo che Cristo abbia perdonato anche il vecchio Giuda, dice il protagonista del “Giovane Holden”), ma i gallipolini no, non lo perdonarono. Anzi esso, la sua statua fu obiettivo eterno dell’odio un po’ ingenuo e vendicativo del popolo – scrive Oliviero Cataldini – Il popolino sfogava tutte le proprie miserie e sofferenze, sputi, parolacce, sull’orrida maschera del malladrone: “Puh… ci si bruttu ci te cascia ‘utta. . .!ci te vidia de notte, largu sia,!cu sta facce rrignata e cusì brutta,! sarà ca me cacava pe’ la via…!Cazza! ca stringi li tienti, e mosci tutta! la raggia ci de l’anima te ‘ssia…“.

Da bambini ci spaventavamo davvero nell’ascoltare la leggenda de lu Mallatrone, – scrive Giorgio Barba -, quella statua in legno coi vestiti sempre strappati nella Chiesa di San Francesco d’Assisi, raffigurante Misma, il cattivo ladrone, che rappresenta il male della terra”.

E molti poeti lo hanno cantato, a partire dall’autore dei versi citati di Francesco Saverio Buccarella a Luigi Sansò, da Patitari ad Aldino De Vittorio:

“Cu l’occhi tutti russi e spinchiulisciati,/ cu la ucca ca mmoscia strinti li tienti/ ca te la raggia su tutti nvelinati/ cu li capiddri longhi , tutti pandenti,/ te la croce , te coste a quiddra te Cristu,/ pende lu mmalatrone tuttu strazzatu,/ l’ommu tanto fiaccu , marvaggiu e tristu,/ ca pe tanti seculi è stato sputatu. E Aldino ci mette una nota satirica e amara rapportata ai nostri tempi , come tutti i poeti che fanno in qualche modo anche cronaca di costume del loro tempo: “.Osci iddru se vite tuttu cuntentu, /pe stu mundu ca s’have menzu cangiatu,/ cu tantu furtu , omicitiu e rapimentu/ nu è cchiui sulu , mmalatrone tiscraziatu.”

4. Patipaticchia
Mentre un altro personaggio assai odiato nel Salento, in particolare dai galatinesi, il flagellatore di Cristo, detto Patipaticchia, alto, poderoso, folta capigliatura ondulata, barba virile, struttura corporea solida, gambe divaricate per il perfetto equilibrio di chi si appresta a colpire, sguardo fermo ( la statua era in cartapesta, e non mancava di un suo singolare fascino e attrazione) col tempo se ne è andato a finire nei ripostigli della chiesa dell’Addolorata, dove veniva esposto nell’arco di tempo dedicato alla visita dei sepolcri alla furia del popolo (contro la statua si scagliava la collera di uomini, donne, bambini, ficcavano nelle sue  carni spilli, chiodi e quant’altro poteva dare l’immagine concreta, fisica e un poco truculenta del dolore, della sofferenza, della ingenua vendetta popolare), ed oggi è stato praticamente dimenticato da tutti, la statua lignea del cattivo ladrone continua ad affascinare e spaventare grandi e bambini nella sua di orrida bellezza, nella sua grandiosità terrificante, e il suo ghigno continua a campeggiare dall’alto della croce nella cappella degli spagnoli, dov’è sepolto il castellano De La Cueva insieme ad altri personaggi illustri del tempo, come Matteo Calò, che partecipò alla battaglia di Lepanto, e vari scrittori e letterati che onorarono lacittà jonica. Ma l’unica vera “star”, da ormai oltre due secoli e mezzo, continua ad essere lui, e la cappella è stata ribattezzata, in suo onore, cappella del Malladrone; frotte di comitive turistiche in ogni stagione dell’anno si portano presso la statua lignea e tempestano di flashes le scure umide ombre della chiesa del poverello di Assisi, quella maschera che è insieme beffarda e disperata, iraconda e grandiosa. “Vedi – indica con la mano Don Armando – quegli occhi rossi, i denti avvelenati, i vestiti stracciati , la rabbia ch’esce da tutta la figura , la rabbia dei senza dio …Vedi, sotto la vecchia mano giudea crocifissa e l’arco della cappella che sfiora trasversalmente quella corda di luce tesa? Ecco, ogni volta che guardi quest’immagine, muore un suono, e l’uomo non rammenta che già un’altra volta fece la stessa cosa, che tradì e non si pentì, e lo farà ancora chissà quante altre volte, fino alla sera ultima che guarderà”.

Insomma, col suo rifiuto nel pentirsi a Cristo (anzi lo derise: se sei veramente il Cristo liberati dai chiodi e scendi dalla croce), si è guadagnato una grande famigerata notorietà, più lui che non il buon ladrone che si pentì e andò in paradiso. E ora eccolo lì, in croce, a guardarci col suo sorriso beffardo, un sorriso che inquieta e ridesta antiche paure, antichi fantasmi del medioevo.

Gabriele d'Annunzio

5. Gabriele D’Annunzio
Però bisogna andare lì, nella chiesa di San Francesco, nella cappella a lui riservata, sotto la sua croce e guardare il suo ghigno nella penombra, per capire tutto ciò. Il Malladrone lo si può capire e ammirare solo col vederlo da vicino, e magari al lume di candela, come usava un tempo e come capitò una sera d’estate a Gabriele D’Annunzio, il vate, approdato nel porto di Gallipoli il 28 luglio 1895. Scrisse sul suo taccuino di bordo: “Scendiamo a terra per fare qualche spesa. Alcuni gallipolini ci offrono di mostrarci il “mal ladrone”. Sembra che questo crocifisso sia il personaggio più importante della città“. Era una sera festaiola , come sempre a Gallipoli d’estate, e c’era un “gran frastuono di banda musicale, di gran cassa, di campanelle come in una fiera”.

Al di la del ponte, sulla passeggiata del corso XX Settembre ( l’attuale Corso Roma), dove “un gran sedile in muratura si prolungava da un capo all ‘altro, la gente stava seduta, di fronte al porto, e guardava i lumi della sera… Il guardiano ci porta nella chiesa, entriamo, accende una candela in cima a una canna e ci conduce in una cappella oscura. Sollevando il moccolo illumina una figura di legno dipinto inchiodata ad un’alta croce. Il fantoccio ha una strana espressione di vita atroce, nell’ombra”.

A D’Annunzio i gallipolini avevano raccontato mille storie sul Malladrone. Ad esempio che aveva sempre i vestiti “strazzati” (strappati, lacerati, ridotti in brandelli) e non c’era verso di cambiarglieli anche cento, mille volte, il giorno dopo tornavano gli stessi. E’ tuttora celebre in tutta la provincia di Lecce, il detto “vai vestito come il malladrone di Gallipoli“, quando si incontra una persona mal vestita o con dei cenci indosso. E inoltre si riteneva che i denti della statua fossero o quelli dell’autore ( Mastro Genuino) o realmente quelli di un condannato a morte, a cui avevano tagliato la testa. E poi altre leggende, che facevano rizzare capelli, come quella di Misma che ogni sera scende dalla croce e vaga per le strade della città per spaventare a morte i disgraziati ritardatari (ad una certa ora si chiudeva il ponte levatoio e nessuno poteva più entrare nell’isola).

6. Umberto Biancamano
E’ evidente che per tutta una serie di motivi, legati anche all’estetica dannunziana, il Malladrone rimase fortemente impresso nell’animo del Vate che lo rievocherà diverse altre volte, ad esempio nel romanzo “La Seconda amante di Lucrezia Buti”:

E mi ricordo del Pugliese di Gallipoli che mi raccontò come una sera entrasse nella chiesa dopo i vespri per vedere “il mal ladrone” e accendesse un moccolo in cima a una canna e s’arrischiasse nella cappella buia e sollevando il moccolo scoprisse in cima alla croce l’uomo; che si mise a sollevare le palpebre, a roteare gli occhi, ad ansimare, e a dibattere le mani confisse con tanta furia che gli rimasero entrambe nei chiodi come due nottole mentre i moncherini gli ricascavano giù.

E poi nel poema la Beffa di Buccari in cui il maggiore di cavalleria D’Annunzio accenna all’eroico marinaio gallipolino, Umberto Biancamano, il prodiere del Mas, con la mano adusa ai timoni, ai cavi e alla scintille azzurre del mare, che era stato uno dei partecipanti all’impresa, uno dei trenta in una sorte! e trentuno con la morte.

Il Vate ne parla come del concittadino dei vecchi crocefissi Misma e Disma. “…nato nella bianca Gallipoli all’ombra dei più pingui ulivi salentini…”.

Il giovane D’Annunzio (allora aveva trentadue anni) in quel periodo iniziava il suo lungo fortunato ma anche burrascoso rapporto con il teatro e con la grande Eleonora Duse, che aveva qualche anno più di lui, ed era gelosissima del poeta. Ma sul panfilo che da Gallipoli lo avrebbe portato in Grecia, un due alberi, di 58 tonnellate, oltre l’equipaggio, c’erano solo uomini: oltre a lui, c’era Scarfoglio, il pittore Guido Boggiani, e il critico e letterato francese Georges Herelle, traduttore delle opere di D’Annunzio. Erano tutti intenzionati ad una sorta di “full immersion” culturale, vedere e descrivere le grandi opere della Grecia antica da cui sarebbero nati grandi reportages, motivi di grande ispirazione, ma in realtà – disse il comandante del Panfilo, Francesco Cacace, si comportarono come un gruppo di scostumati gatti bizantini in calore, stavano sempre nudi in coperta senza fare nulla, e una volta a terra, si gettavano nei porti a cercare donne di malaffare da condurre a bordo, come fanno gli ultimi marinai. E tuttavia a crociera finita, dopo qualche tempo, l’ispirazione fece i suoi effetti positivi su Gabriele, ed ecco, in nuce, “Laus Vitas”, “Alcione”, “La città morta”, quest’ultimo un testo teatrale scritto su misura per la Duse, che amò D’Annunzio con tutto il trasporto di una donna di quarant’tanni dalla dolce bellezza disfiorita, dal temperamento tragico, generoso e ipersensibile. Soffrì molto ed ebbe momenti di disperazione, ma – scrisse Fusero – “finì per sovrastarlo, quale testimone muta dell’infinita miseria del suo egoismo e cinismo”.

Forse al Vate sarà venuto in mente qualche volta la croce dell’infedele Misma e la chiave negat, la smorfia, la beffa tragica, la sarcastica sfrontatezza, il riso beffardo e sprezzante, la spudoratezza popolaresca e picaresca, lo sguardo furbesco, rotto a tutte le avventure e a tutte l’esperienze, la consapevolezza della scelta ineluttabile dell’inferno, con biglietto di solo andata. Chissà che quella disincantata ferocia della maschera gallipolina, alla fin fine non risulti simpatica proprio perché fa parte della storia e della vita dell’uomo e quindi ciascuno di noi può riconoscersi, per quanto piccola, in una parte di se stesso? Ma forse – insinua Errico – c’è anche il dolore , seppellito nel ghigno, forse c’è anche la disperazione, celata nel ringhio,

“e il pentimento inconfessato per il male fatto al mondo, per il peccato contro il cielo compiuto da ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Allora, nella penombra, nella temporalità sospesa, sfibrata, rarefatta, il Malladrone crocefisso in San Francesco d’Assisi soffoca ancora il suo pianto e urla il suo giudizio di disprezzo verso se stesso”.

11 pensieri su “Gallipoli, il Malladrone e Gabriele D’Annunzio”

  1. E dire che ci sono passata centinaia di volte, senza mai poterlo conoscere…
    Resto incuriosita da “quella strana espressione di vita atroce”, a metà tra la cattiveria e la sofferenza e, quanto prima , dovrò andare ad ammirare questo simpatico Mallladrone, che, in parte, è un po’ in tutti noi.
    Mi sorprende che all’interno di un luogo sacro si sia consentita la schietta convivenza scenica di Bene e Male, quasi a voler significare l’impossibilità di una pace terrena, spesso rapita dalle fatiche quotidiane.
    Da qui spesso la rabbia per la vita e con la vita; da qui, per riprendere le parole di Antonio Errico “la proiezione verso il mare, lo stupore per l’oltre”, al di là dell’orizzonte, oltre le colonne d’Ercole, per dirla alla maniera di Omero.
    Ho apprezzato molto il suo post, una piacevole lettura, testimonianza di una terra che pullula di emozioni.
    Grazie per aver contribuito ad arricchire la nostra cultura… salentina.

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  2. Cara Antonella, di Miccoli in terra salentina ce ne sono molti , e qualcuno anche giustamente famoso ( ad es. Fabrizio, il calciatore che ora gioca nel Palermo, detto anche il Romario del Salento), ma ce ne sono altri più misconosciuti che – come lei – offrono testimonianza di classe, gentilezza, sensibilità e cultura, ed anche un pizzico di ironia che non guasta mai. Il suo intervento mi è piaciuto e lascia ben sperare per il futuro “squisitamente culturale” della regione. Del resto il Salento è un crocevia millenario della cultura fra oriente e occidente, una sorta di sincretismo religioso e culturale col solo difetto che la storia l’hanno scritta gli altri . Secondo alcuni ( ed io mi associo ) Lecce è la città più colta e più bella dell’Italia meridionale. Io non sono salentino di nascita, ma nel Salento ci ho vissuto – dico intensamente vissuto – per più di un trentennio e me ne sono innamorato a prima vista fino al punto da farne un po’ la mia ragione di vita , soprattutto dal punto di vista culturale. Praticamente il novanta per cento dei miei scritti – e sono molti, forse troppi, mi creda – traggono origine dalla mia “salentinità”. Oltre il Malladrone, ho scritto di millanta personaggi salentini, la stragrande dei quali misconosciuti al grande pubblico – e volentieri ne darò testimonianza con i miei articoli su questo blog diretto splendidamente dall’amico Gianfranco.
    A risentirci.

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    1. caro Augusto,
      trovo interessante che anche tu abbia focalizzato quello che giustamente chiami “difetto”.La storia non scritta, e quella storia scritta con le ragioni e le visioni degli altri, sono problematiche di cui abbiamo ampiamente discusso in passato sul forum di Culturasalentina (http://culturasalentina.forumattivo.com/). Mi trovi perfettamente d’accordo e, in parte, è proprio l’assenza di una storia scritta da Salentini a costituire uno dei fattori spinta fondamentali per la nostra azione. Il fatto che anche tu l’abbia fatto notare mi convince ulteriormente di esserci collocati sulla giusta strada.

      Occorre fare una precisazione a questo proposito; quando parliamo di storie non scritte intendiamo non divulgate e non diffuse nel tessuto culturale del territorio e, quel che è peggio, non presenti sui libri scolastici; per cui spesso gli studenti dei nostri istituti si trovano a studiare la storia degli altri, quella vista con una visione nordcentrica e non conoscono quella che li riguarda (e forse maggiormente li interessa) più da vicino. E’ il caso del tuo interessantissimo contributo di cui molti salentini ti saranno grati.

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  3. Caro sig. Augusto,
    ho letto con gran gusto e piacere il suo scritto. E’ squisito e mi ha arricchito tantissimo ma ancor più riflettere. Il Malladrone, figura di peccatore che non si converte nemmeno difronte alla morte, diventa nell’immaginario collettivo il “mostro”, la paura, l’orrido. Il popolo si scaglia contro sputando e in esso rivede la causa dei mali del mondo e verso di esso scaglia la rabbia del suo stesso vivere di stenti: fame, povertà, lotta contro la morte. Un mondo in cui la religiosità permea nell’animo umano e infonde la speranza di un riscatto, di un miglior vivere. La Conversione come salvezza ma nell’immagionario la conversione come riscatto da quest’inferno di mondo. Genuino Vespasiano aveva forse capito questo e nella figura del Malladrone voleva proprio significare “Uomo salvati e la tua vita sarà beata”. Sarebbe bello leggere questa scultura attraverso l’antropologia. Grazie mille sig. Augusto per questo splendido scritto.
    V.

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  4. Caro Gianfranco,
    è proprio così, è ora che la storia ce la scriviamo da soli, inteso nell’accezione più vasta e profonda, che tolga tutta la muffa retorica e accademica e faccia aria , aria luminosa com’è quella del Salento.
    Ti faccio qualche esempio concreto . Io ho portato Bodini , e Pagano, Fiore, Toma, D’andrea , Comi etc. a Roma, nelle sale del Senato ( Allora c’era il sen. Erroi, ottimo amico, con cui si potevano fare certe escursioni) e la gente che è venuta ( molti insegnanti di letteratura) era meravigliata , soprattutto di Bodini, e mi chiedeva come mai un poeta del genere non veniva studiato a scuola. E io a dire che quando l’avevo proposto ( in forma di recital) , in un Istituto Professionale di Parabita , era stato un mezzo fiasco perchè i ragazzi dicevano che Bodini parlava “male” del Salento , e che evidentemente gli insegnanti, nella loro profonda ignoranza , non avevano capito un beato c….Idem da parte dei parenti del leccese , che hanno minacciato di querelarmi perchè , nel profilo, dico che Bodini quando tornò dalla Spagna era mezzo morto di fame. Siamo contornati, circondati, asfissiati , ammorbati , da persone di tal fatta, caro amico.
    E gli unici romanzi di storia salentina che hanno avuto successo sono quelli scritti da non salentini ( ricordo quello di Maria Corti , l’Ora di tutti). Anche la tanto strombazzata Accademia di Lucugnano fondata da Comi, con la stessa Corti , Pierri e qualche altro, era una cosa ristretta ad un elite di stampo borghese-aristocratico. Una vera e propria cultura salentina , tranne i tentativi di Verri negli anni ’80, non èmai veramente nata. Ora siamo alla quarta generazione , rispetto ai Comi-Bodini-Pagano-Pierri, e speriamo che qualcosa venga fuori, come è successo, ad esempio nella musica coi Negroamaro e altri gruppi salentini che vanno affermandosi.( Forse la poesia vera oggi la troviamo più nei cantautori che nei letterati in senso stretto)
    Avrei da raccontarti molte altre cose, ma per ora mi fermo qui . Avremo modo in seguito di parlarne.

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    1. Spesso i Salentini non vedono i propri difetti. Questa frase detta così risulta alquanto banale e me ne rendo conto. Se però da Salentino hai necessità di riflettere sui problemi che da secoli ormai affliggono la tua terra, hai il dovere di fermarti, di metterti seduto, e di riflettere.

      Io l’ho fatto; anzi lo faccio sempre, è un esercizio necessario quello di riflettere sulle proprie defaillance se ci si vuole migliorare (nulla di nuovo, ce lo ricordava anche Socrate secoli or sono). Uno dei nostri difetti maggiori è l’adulazione del forestiero, c’è qualcosa in noi che ci spinge sempre a una sorta di curiosità morbosa verso chi viene da fuori, specie se proviene da nord; è così che il nostro miglior pregio diventa anche il nostro peggior difetto riducendoci a misconoscere i grandi personaggi della nostra terra per adulare gli sciacqualattughe provenienti da tutto il mondo; ovvio che si generalizza (e che non sempre è così), ma il concetto è questo. I nostri spesso diventano grandi fuori dalla loro regione, prima di venire accolti come eroi nella loro terra, magari da morti.

      Altro grande difetto è l’individualismo e la costante mancanza di fiducia nel prossimo; difetto che nella pratica riduce le possibilità di cooperazione, distruggendo di fatto qualsiasi iniziativa associazionistica che non abbia palesi fini di lucro e immediati ritorni per l’individuo; ma questa è un’altra storia.

      Al di là di questi discorsi, mi fa sentire meno solo il sapere che anche tu hai la mia stessa considerazione di alcuni romanzi 🙂
      Ho avuto belle discussioni con amici innamorati persi dell’Ora di tutti, un testo che ho praticamente abbandonato a metà almeno un paio di volte, nel momento in cui percepivo che la scrittura veniva da un autore che non era intriso della nostra cultura e che ne scrive da una posizione culturale e intellettuale, francamente da me sentita come altra rispetto ai personaggi del racconto.

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  5. Caro Vincenzo, che dirti? Caffè pagato per le tue belle parole, uno scrive per trasmettere le proprie emozioni, la propria incontenibile gioia per una scoperta magari anche di cultura popolare, legata alle tradizioni e ai costumi, e quando trova riscontro è ovviamente contento. Non esiste lo scrittore o l’artista che fa le cose per se stesso, è un atteggiamento che considero più infantile che strafottente. L’arte, la cultura è partecipazione, se non è partecipata non esiste.
    Condivido appieno le tue considerazioni , in certo qual modo la figura del Malladrone è “eroica”, fortemente romantica, ed è per questo che interessò D’annunzio, che si trovava in quel momento storico negli ultimi fuochi del romanticismo , immerso nei fiori tutt’altro che olezzanti di memoria baudelariana che andava a raccogliere nelle pattumiere della Grecia , ed è anche per questo che il popolo ne avverte il fascino orrido e stregante . Credo che se ai gallipolini gli togliessero il Malladrone farebbero davvero la rivoluzione.

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  6. Anche i non-salentini sono grati per la testimonianza di questa storia-meridionale non scritta e non conosciuta. Affascinante e viva come il mare!

    Rosaria Di Donato

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  7. Sul piano strettamente storico-artistico, va ancora chiarita l’identita’ dell’artista che ha scolpito le due statue dei Ladroni gallipolini. A quanto pare, non si tratta del celebre Vespasiano Genuino (1552-1637 ca.), ma di un suo parente , forse un nipote. La questione e’ tutt’altro che risolta
    ….

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