Racconti, Scrittori salentini

Una storia di macàre

Soleto in una antica acquaforte
Il campanile di Soleto in una antica acquaforte

Che ci crediate o no, questa è una storia vera, dall’inizio alla fine, senza alcuna indulgenza all’immaginazione, alla fantasia. È una storia del Salento, del magico Salento, che mi è stata raccontata dal mio compianto amico Florio Santini; un bel tipo, Florio: un salentino di Lucca o un lucchese del Salento, fate voi.

La bella striàra venuta dalla Garfagnana

Il Salento, dunque, il magico Salento. In una terra magica non può mancare certo la magia: quella poetica del cielo e del mare, quella trainante del calore della gente, quella inebriante dei canti popolari, quella, un po’ settaria e tribale, del mito delle tarantolate e della danza purificatrice della pizzica e, infine, quella, fantastica, delle striàre.

Striàra (o macàra) è un tipico termine dialettale salentino che indica le streghe, leggendarie donne che, secondo la credenza popolare, nelle notti di luna piena si trasformavano in spaventose megere vestite di stracci neri o in gatti (rigorosamente neri anche questi) e si recavano in gruppo in riva al mare o sotto un secolare albero di noce per abbandonarsi in interminabili danze dionisiache.

Come ci informa Barbara in altre pagine della nostra rivista, le striàre incutevano, nello stesso tempo, timore e rispetto, in relazione ai loro straordinari poteri, ai quali spesso ci si rivolgeva per risolvere i problemi più intricati; infatti, costoro erano in grado di “lanciare” il malocchio (malocchiu) o di liberare dallo stesso, ed erano straordinariamente abili nel preparare filtri, pozioni magiche, unguenti, incantesimi e fatture (macarìe) per far nascere (o per far ritornare) l’amore in un fidanzato, in un marito, in un amante o, peggio, per provocare la morte o rapire neonati, o ancora, e per finire, per scacciare via i dispettosi folletti (scazzamurieddhri) che infestavano le case.

Le striàre erano la prova vivente del dualismo manicheo che ha da sempre contraddistinto gli esseri umani, anche le donne, quindi, non gli uomini soltanto (il dottor Jackyll e Mr. Hyde, il Visconte dimezzato, ecc.): in bilico sul sottile confine tra la provvida saggezza contadina e la più ottusa e cieca superstizione, si dibattevano tra il bene e il male; e se di giorno erano madri attente e mogli dedite alla famiglia e alla casa, di notte cambiavano “pelle”, si spalmavano il corpo con un formidabile unguento la cui formula era nota solo a loro e, recitata una formula magica, si scatenavano in danze sfrenate che si protraevano per tutta la notte.

Secondo la tradizione popolare salentina, sempre citata da Barbara, le striàre (macàre) erano costrette a camminare sempre dritte impettite e non potevano piegarsi; per questo motivo le porte di ingresso delle pajare (i trulli usati come ripari temporanei dai contadini) e delle suppinne (le casette di campagna dei contadini) venivano costruite di un’altezza ridotta rispetto al normale, appunto per non fare entrare queste “mal’umbre” di notte.

Altri strani modi per proteggersi contro le striàre erano stati tramandati da generazione in generazione e non dovrebbero mai essere rimossi dalla memoria, per evitare guai… Uno degli strumenti anti-striàra più efficaci è quello di inserire sulle soglie d’ingresso delle case (o sotto la camicia) una delle tante erbe scacciastreghe (un rametto di iperico, più noto come Erba di San Giovanni o scaccia diavoli, o di ulivo, di rosmarino, di alloro, di ginepro o, per finire, una noce intera, completa di mallo).

Ancora, un ferro di cavallo, delle forbici aperte o una falce sulla porta di casa o intorno alle culle dei bambini; oppure, sapendo che i poteri delle streghe hanno effetto solo di notte, si può lasciare un barattolo contenente del sale grosso o una scopa di saggìna capovolta davanti all’uscio di casa: in questo modo, si pensa che le striàre si debbano fermare a contare i grani di sale o i fili della scopa, impiegando, in questa operazione, tutta la notte.

Anche “lu farnaru”, il setaccio usato per la farina, rappresenta una sfida per la striàra nella conta dei fori, così come le ceste “de li conzi” o “de le calome” dei pescatori con tantissime lenze ed ami da sbrogliare sono attrazioni irresistibili per le striare: tutte operazioni così laboriose che richiedono tutta la notte, in modo da permettere a tutti di essere al sicuro.

La località del Salento nella quale ha vissuto una delle più famose striàre della storia è il ridente villaggio di Uggiano La Chiesa, a un tiro di schioppo da Otranto; a Uggiano, presso il “noce del mulino a vento” le striare dei dintorni si riunivano per i frequenti sabba. In paese, infatti, viveva una celebre locandiera/strega che riuniva periodicamente tutte le sue amiche… Una notte di luna piena, con la locanda piena di gente, il marito si trovò in difficoltà: la “panecotta” e “lu mieru” (il vino) per i clienti erano finiti e la moglie era uscita per il sabba stregonesco; il marito non avrebbe potuto mettersi in contatto con lei, se non entrando anche lui in trance nei pressi del magico noce del mulino a vento. Che fare, dunque? L’uomo conosceva il segreto della moglie e così pensò di recarsi presso il noce del mulino a vento e di ungersi con il magico unguento nascosto in casa. Giunto sul posto, però, sbagliò la formula magica ed invece di dire “sutta l’acqua e sutta lu jentu/sutta lu noce de lu mulinu a jentu” pronunciò: “susu all’acqua e susu allu jenti/susu lu noce de lu mulinu a jentu”; per quell’errore fu risucchiato in aria a testa in giù. A gambe levate e ondeggiando nel vuoto, il pover’uomo si rivolse urlando alla moglie chiedendole disperatamente aiuto; la donna, senza nemmeno scomporsi, recitò alcune parole magiche che lo fecero cadere per terra, salvandolo da morte certa.

Da quel giorno, per evitare il ripetersi di simili incidenti, le striare di Uggiano e dintorni decisero di interrompere i loro sabba presso il noce del mulino a vento, ma la loro costante, immanente e minacciosa presenza restò e continua ad essere documentata dal ripetersi di tanti piccoli eventi, strani e misteriosi, che continuano ad accadere di notte sia alle singole persone sia all’interno delle abitazioni degli uggianesi, fatto quest’ultimo da imputarsi all’azione dei terribili e dispettosissimi folletti del Salento, gli scazzamurieddhri.

Niente da paragonare, comunque, ai leggendari e spaventosi eventi del passato.

Passarono gli anni e si giunse nel 2001, anno del periodico censimento delle striare e degli scazzamurieddhri; occorre precisare, infatti, che ogni primo anno di ogni decade (1581, 1721, 1971, ecc.), si effettua “lu censimentu de li machi e de le macàre”, durante il quale si procede alla conta numerica degli stregoni, delle fattucchiere e dei folletti e si presta ascolto ai racconti delle “imprese” degli scazzamurieddhri.

Durante l’assemblea plenaria, il coordinatore degli scazzamurieddhri portò a conoscenza di tutti i presenti che il Barone Gortano de’ Gortànis, il fantasma innamorato, invisibile ospite della Torre dell’Angelo, fosco monumento che troneggia nella piazza principale del paese “de li Babbarabbà” come me, gli aveva predetto la venuta a Uggiano di una bellissima e misteriosa striàra della Garfagnana nel successivo mese d’agosto; gli confidò di esserne venuto a conoscenza alcuni secoli prima, quando il barone era ancora ospite del piccolo castello arcivescovile (il “castelletto”) di Magliano in Garfagnana.

La bellissima striàra delle poetiche terre del Serchio, ma nativa dell’Agro Pontino, era una principessa dai riccioli d’oro di nome Sibilla e sarebbe stata accompagnata nel Salento dai suoi acconciatori personali, Linchetto e Buffardello, gli invisibili e dispettosissimi folletti della Garfagnana, responsabili della forma, ogni giorno differente, ma sempre originale, della straordinaria capigliatura della principessa.

Giunse, così, l’agosto del 2001 e la bellissima principessa Sibilla planò nel Salento per una breve vacanza. Gli fece da cavaliere il mite Archimede, un inguaribile sognatore, che restò subito affascinato, come folgorato, dal sorriso, dalle movenze, dalla cultura e dal profumo della sua pelle.

La prima sera (era il 10 agosto) la portò a vedere il mare dall’alto degli scogli tufacei di Sant’Andrea… E il mare cominciò ad ondeggiare lievemente, come atteggiandosi ad un ossequioso saluto nei confronti della splendida fanciulla.

La seconda sera la portò in un grande locale di ballo popolare, dove la principessa prese a danzare da sola, attirando su di sé lo sguardo ammirato di decine e decine di avventori.

La terza sera la portò in un parcheggio a pettine di periferia, tutt’altro che romantico, ma che fu sede di un caldo e languido abbraccio, che si protrasse per interminabili momenti.

La quarta sera (era il 13 agosto)… lei non c’era più, ma Archimede volle portare il suo ricordo al magico parcheggio di periferia del giorno precedente… Ed accese lo stereo per ascoltare lo stesso motivo… Ed alzò lo sguardo per osservare la stessa luna piena, timida testimone dei suoi più intensi momenti di dolcezza… Poi chiuse gli occhi e cercò di ripassare nella memoria e nell’anima i suoi gesti, i suoi respiri, i suoi baci… Ma le striàre restano presenti anche a distanza di migliaia di chilometri; Sibilla aveva lasciato, infatti, nel Salento i due folletti, perché si prendessero cura del suo gentile cavaliere… E fu così che una mano invisibile (era un prodigio di Linchetto) abbassò il finestrino del lato del sempre più frastornato Archinede, schiudendo il passaggio allo scontronello, un vento vorticoso ed impetuoso, prodotto dal poderoso soffio di Buffardello, che si fece però via via sempre meno intenso, fino a trasformarsi in una morbida e calda carezza sul viso, al punto che Archimede ebbe l’impressione di averla ricevuta dalla piccola e delicata mano della principessa.

Quella stessa notte Archimede si recò presso il secolare noce del mulino a vento e, con il cuore in tumulto, sperando di poter essere portato via dal vento nella città d’Ilaria del Carretto e della principessa Sibilla, prese ad enunciare alla luna la formula magica: “Sutta l’acqua e sutta lu jentu/sutta lu noce de lu mulinu a jentu”.

Bene, c’è chi dice che non accadde proprio nulla, che da quel giorno il mito delle striàre e della magia di Uggiano La Chiesa e dell’intero Salento fu inesorabilmente sfatato… Pochi sanno, però che, subito dopo aver pronunciato la magica formula, il cuore di Archimede prese a volare e raggiunse felice la sua principessa, dalla quale mai più si separò.

Mi chiederete: “E vissero tutti felici e contenti?”.

E che ne so, io? È una storia vera, mica una fiaba, questa!

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6 pensieri su “Una storia di macàre”

  1. …io me li ricordo ancora,quei racconti.quel racconto dei racconti.lu “cuntu” per eccellenza.la macara,la strega,i riti sabbatici,le macarie,c’era tutto l’incanto e la magia dell’ignoto,dell’inspiegabile.territorio di adulti,di conoscenza futura,di quel “un giorno forse capirai” che mia nonna snocciolava ad ogni mia richiesta di spiegazione.c’era un mondo da capire,da concentrare in una sola verità,in un solo istante.quel cercare di comprendere se stessi con la conoscenza dell’attorno,con la storia della propria Terra attraverso le sue storie.didattica orale,quasi manichea a volte.in quella ossequiosa ricerca della frase esatta e della sceneggiatura più consona per rendere più efficace il racconto,ed in quel continuo rimescolare,rimodellare,scompigliare,confondere,rimestare il racconto per renderlo il più personale possibile,per dare quel pizzico di suspence in più per accattivarsi l’attenzione dei bimbi e degli altri adulti.
    io me li ricordo i “cunti” delle striare e mi trovo felice che Pierluigi ne abbia fatto un ulteriore “cuntu” con un cuore didascalico ( nell’accezione positiva dello spiegare,del rendere comprensibile) ma con un sostrato eccezionale di umorismo e disincanto.Lunga vita ai babbarabbà,Pierluigi.in miliardo di volte…

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  2. Grazie Lele, grazie dal prfondo del cuore da un babbarabbà con forti influenze (genetiche) da cucuzzaro (e forse anche tu ne sai qualcoa, credo)… Sta di fatto che, ci potrai credere o meno, ma c’è molto di vero nellu cuntu che ho… raccontato…

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  3. E’ semplicemente bellissimo.
    Leggendo questa storia qualcosa si è mossa sottopelle.
    Un immobile, improvviso palpitare di radici.
    Non ho esperienza diretta de ‘lu cuntu’; ne sento una nostalgia rossa

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  4. Ti rinnovo i miei ringraziamenti, Simone, dopo averlo fatto anche su FB. Grazie ancora. PS: fammi sapere che ne pensi della altre cose che ho scritto. Ciao! PG

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  5. Ciao Pierluigi,
    hai scritto questa storia bellissima a settembre del 2011, e io la sto leggendo solo ora… a distanza di un anno.Ma c’è un motivo. Possibile che le màcare avessero un’accezione così negativa? Possibile che siano state dipinte come donne dispettose e malefiche da, addirittura, voler rubare i neonati… mah! Mentre di giorno erano mogli, madre amorevoli! Diciamo che credo esista una magia bianca, una magia “buona” che protegga invece che distruggere… ma sono discorsi difficili e forse da non fare poi così pubblicamente. Come posso contattarti? Lele mi conosce però!
    Sai qualcosa dei curanderos Quecha?
    Grazie per questo bel testo!
    Katia

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