Scrittori salentini

L’Orestea di Eschilo ovvero “La legge è uguale per tutti”


Alcuni miti dell’antichità racchiudono un tale significato assiologico da costituire importanti capisaldi nell’evoluzione del pensiero umano. Fra questi spicca per importanza, l’Orestea di Eschilo scritta nel 458 a.c. In quest’opera e per la prima volta, si stigmatizza il concetto di  una “legge uguale per tutti” e demandata al giudizio di terzi. I miti dell’antichità, come  pure la  Bibbia,  abbondano di episodi cruenti  in cui la giustizia non era, neanche sulla carta, uguale per tutti e la vendetta era il mezzo con cui normalmente si puniva un delitto. Tutto dipendeva dalla “timè” e cioè dal grado sociale e dall’onore di una  persona,  che aveva comunque ragione se occupava un posto più alto nell’evidente sperequazione sociale del tempo. Un attentato all’onore, alla timè, doveva infatti essere immediatamente punito  per non perdere la faccia e il posto d’onore. Così si instauravano tragedie senza fine, vere faide che si trasmettevano da generazione in generazione. Per chiarire il concetto, partiamo da Atreo sennò, delitto dopo delitto,  arriveremmo a scomodare perfino  Zeus. Invito il lettore ad armarsi di pazienza per orientarsi nel groviglio di eventi che sto per riportare, ma non è colpa mia se i miti dell’antica Grecia ci vengono raccontati proprio così dagli illustri tragediografi del tempo.  Atreo dunque, per punire il fratello Tieste di  alcune colpe sulle quali sorvoliamo, gli uccide i figli e (orrore) dopo averglieli fatti mangiare bolliti, gli mostra i teschi rivelando l’orrenda verità. Tieste allora, per vendicarsi, chiede aiuto all’oracolo  di Delfi, che, chissà perché,  gli consiglia di accoppiarsi con la propria  figlia Pelopia, in modo che il frutto della loro unione, Egisto, possa vendicarlo uccidendo Atreo, cosa  che effettivamente avverrà. Egisto, cresciuto con i figli di Atreo, Agamennone e Menelao, diventerà l’amante di  Clitennestra moglie di Agamennone. E fermiamoci un attimo per raccapezzarci in questa baraonda di eventi, prima di addentrarci nell’Orestea che comincia appunto  da qui e si divide in tre parti:

AGAMENNONE – COEFORE  — EUMENIDI.

In  AGAMENNONE si assiste al ritorno in patria del vittorioso Agamennone  che si porta dietro come schiava la principessa troiana Cassandra, nota per prevedere le sciagure senza essere mai creduta. Lo aspetta la sposa Clitennestra che aveva motivi di odio verso il marito perché questi, per tenersi buona la dea Artemide che gli era nemica, su consiglio dell’indovino Calcante, le aveva offerto in sacrificio, prima di partire per la guerra di Troia, la bellissima figlia Ifigenia. Clitennestra, che, come abbiamo visto, era anche l’amante di Egisto, accoglie il marito fingendosi sposa devota ed amorosa ma, appena può, con la complicità di Egisto, accoltella lui e Cassandra. Clitennestra così si sarà vendicata della morte di Ifigenia ed  Egisto avrà continuato la vendetta contro il figlio di Atreo. La Dike, la giustizia del tempo, ha trionfato per i due amanti, ma ora chi vendicherà la morte di Agamennone? Qui cominciano le

COEFORE, le portatrici di cibo per i morti..

Agamennone e Clitennestra avevano  altri due figli oltre a Ifigenia: Elettra e Oreste e qui compare un altro pregiudizio che giunge quasi fino ai nostri giorni. Oreste considera che è stato ucciso suo padre (in questo senso lo difenderà Apollo durante il processo che vedremo) di cui è il discendente  diretto, essendo stato  da esso generato,  mentre la madre non è stata che un contenitore per tutto il periodo della gravidanza, per cui  potrà  ucciderla senza molti rimorsi. Oreste, che era stato allontanato da  Argo in tenera età e viveva con lo zio e il cugino Pilade, su comando dell’oracolo di Delfi (la responsabilità non è mai  tutta degli umani nel mondo dell’antica Grecia), torna quindi  in patria, proprio per uccidere la madre. Porta a termine il suo compito e anzi uccide anche Egisto con la complicità del cugino Pilade. A questo punto, le Erinni, le dee vendicatrici dei delitti, cominciano a seguirlo e lui scappa concludendo così la seconda parte della tragedia.

Le EUMENIDI che altro non sono se non la versione edulcorata delle Erinni, danno il nome alla terza parte della trilogia. E naturalmente per gustarci queste tragedie dovremmo vederle col coro che interviene spesso nelle tragedie greche che si  compongono di

un  Prologo che da inizio alla rappresentazione;

una Parodo che introduce il coro,

gli Episodi, la parte dialogante degli attori;

gli Stasimi, che servono a separare i tanti episodi.

Ma eravamo arrivati al punto in cui Oreste seguito dalle vendicative Erinni chiede aiuto ad Apollo che gli consiglia di rifugiarsi nel tempio di Atena. Qui giunto le Erinni cominciano la loro terribile danza di morte ma, a questo punto, arriva Atena che si offre come giudice di un regolare processo che si svolgerà nell’Areopago con una vera accusa ed una vera difesa. Il momento è importante perché assistiamo a una svolta epocale della giustizia che da vendicativa diventa  collaborativa  e costituisce un’ulteriore evoluzione delle leggi di Dracone  del 621 a.c. e prelude ad una giustizia, almeno sulla carta, uguale per tutti. Tornando nell’Areopago, vediamo l’accusa impersonata dalle Erinni che naturalmente accusano Oreste di matricidio e Apollo, nei panni della difesa, che tenta di giustificarlo ricordando che Clitennestra per prima, aveva ammazzato il marito. La giuria si spacca in due. Atena, come giudice supremo, assolve Oreste fra l’ira delle Erinni. Ed  ecco un’ulteriore evoluzione dei fatti:  Atena riesce a calmare anche queste ultime  trasformandole in Eumenidi appunto, cioè la loro parte più buona, e la tragedia finisce con le parole della dea, che dimostra come una giustizia vendicativa non avrebbe mai fine. L’Orestea è veramente un punto cruciale per la storia dell’Umanità e attraverso il mito e la tragedia, Eschilo cerca di mettere d’accordo le due fazioni del mondo greco del tempo: quella che identificava  la giustizia con la vendetta e quella che cominciava a capire che, per  la  pace civile, era necessario rompere la catena dei delitti e sostituire la passione con la ragione, il sentimento con la serenità di giudizio. Nell’Orestea i giudici sono terzi, la giuria scelta tra le persone più sagge della città e finalmente le parti in causa devono demandare ad altri la valutazione del contenzioso. La storia c’insegna comunque che, sebbene passi enormi siano stati fatti in questi ultimi secoli, l’evoluzione, anche della “dike”, non è continua ma procede a sbalzi retrocedendo talvolta come  nel gioco dell’oca, ma riuscendo alfine, almeno questo ci auguriamo, di raggiungere la meta di un sereno ed equo giudizio per tutta l’Umanità in qualsiasi parte del mondo essa si trovi.

4 pensieri su “L’Orestea di Eschilo ovvero “La legge è uguale per tutti””

  1. Grazie Titti di avermi letto con attenzione. Credevo di essere stato prolisso ma la tua gentilezza mi sprona a continuare su questo tema che ritengo attualissimo avendo già scritto quanto segue non ricordo se nel mio blog o altrove. Il tema della giustizia dovrebbe essere trattato come argomento principe in una società civile e rispettosa dei diritti dell’Uomo.
    Quando penso al caso”Tortora” e alla circostanza che per l’errore giudiziario che lo riguardò, nessuno ha pagato, un brivido mi corre lungo la schiena. Nel 1971 Nanni Loy stigmatizzò il problema della carcerazione preventiva con un film, “Detenuto in attesa di giudizio”, che valse ad Alberto Sordi un premio Donatello come migliore attore protagonista. Oggi che Pannella, con i suoi reiterati digiuni, riesce a catalizzare l’opinione pubblica sul problema del sovraffollamento carcerario, mi sembra il caso di tornare sul problema ricordando la celebre frase “In dubio pro reo” contenuta già nel Digesto giustinianeo (D.50.17.125) come esortazione verso i giudici, quando non v’è certezza di colpevolezza, di accettare il rischio di assolvere un colpevole piuttosto che rischiare di condannare un innocente. Mi rendo conto che talvolta la carcerazione preventiva si rende necessaria ( pericolo di fuga, reiterazione del reato, ecc.) ma, data la presunzione d’innocenza prevista dalla nostra costituzione (Art.27.2), non è assurdo che un imputato “sconti” una pena che potrebbe non essergli comminata assieme a detenuti certamente colpevoli? Non si potrebbero isolare i presunti innocenti in luoghi diversi dal carcere comune, visto che, oltretutto, la limitazione di libertà è un marchio che ti segna per tutta la vita? E si può ricorrere alla carcerazione preventiva per spingere un imputato a confessare? Non è forse questa una forma di tortura contro la quale Cesare Beccaria scrisse il celebre saggio “Dei delitti e delle pene”? Credo si debba fare a questo punto un passo indietro chiedendoci se una pena debba essere comminata come punizione o come prevenzione: “ Nemo prudens punit quia peccatum est, sed ne peccetur” (nessun uomo avveduto punisce perché si è peccato ma perché non si pecchi) ci ricorda Seneca parafrasando Platone e questa verità dovremmo tutti scolpircela in testa. Non si deve tenere rinchiuso un pericoloso criminale solo perché deve scontare la pena, ma soprattutto perché bisogna salvaguardare la società dalla sua latente pericolosità. Vista da questa ottica la carcerazione non dovrebbe essere luogo di tormento ma di isolamento e la carcerazione preventiva dovrebbe garantire il rispetto per chi potrebbe risultare innocente dopo i tre gradi di giudizio che la nostra società garantista ha previsto. Con lo stesso metro però bisognerebbe vigilare che una pena comminata dopo i tre gradi di giudizio, venga effettivamente scontata sennò assisteremmo al paradosso che un innocente paghi preventivamente una pena non commessa ed un colpevole se la cavi con un periodo di detenzione inferiore a quanto deciso in tribunale.

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