Opinioni, Pensiero meridionale, Territorio

Il mare indifeso

di Maria Cezza

Earth spirit
©Gianfranco Budano: Earth spirit

A un certo punto ho smesso di immaginare il Paradiso come nuvole e cielo. Ho iniziato a immaginarlo come il mare. A riconoscerlo nel mare. Una distesa infinita di mare. Di enormi secchiate di celeste azzurro blu intenso. Tutte le declinazioni di un colore, tuffate nel verde. E’ così che immagino il Paradiso. Acqua. E sono convinta si abbia molta fortuna a sperimentarlo qui, sulla terra, abbastanza.
Un sorso di Paradiso c’è anche ad Otranto, accanto ad una Masseria del 1500 e ad una superficie di verde (abitata un tempo da robusti girasoli, a volte da covoni, ora da colture diverse). A braccetto tra il verde e la masseria un vialetto pietroso, impolverato, bollente. Solo nell’ultimo tratto confortato da un fico che gli concede l’ombra. Quel vialetto è il primo passo per condurti verso un viale di mare, il paradiso appunto, un canale, detto il “Canalone”; racchiuso tra scogli ripidi e vegetazione, poi si allarga ad altro mare, al mare aperto: quello che si spinge fino all’Albania, spesso così intuibile, di fronte.
Il Canalone raccoglie tutte le possibilità dell’acqua e te le porge. Come l’antico regalo che ci fa la terra, ogni giorno. Generoso, senza risparmiare bellezza. Intrattabile, eppure sempre disponibile. Puntuale. Come un Paradiso, da guadagnare. Ma senza acquisto.
Il Canalone è ancora selvaggio, faticosamente accessibile, forse per questo così affascinante.Quasi incontaminato, per quanto possa esserlo il mare, oggi.
Un modo per arrivarci è un minuscolo sentiero che si arma di rovi e rami durante tutto l’anno, per poi essere leggermente sbrecciato da qualche anima coraggiosa all’inizio di giugno, luglio. Comunque scontroso, ti conduce allo scoglio alla spiaggia e al mare.
Ecco, accanto a questo anticipo di Paradiso, accanto alla Masseria del 1500, sul verde, proprio di fronte al mare sbarcheranno i nuovi pirati, di quelli antichi perfino più pericolosi, i depredatori delle vere ricchezze. Approderanno coi loro forzieri, accumulati chissà dove come in quali viaggi, i Briatore e i vari imprenditori di turno, con un’improponibile ciurma appresso.
Con la loro tipica stazza chiassosa allucinata e volgarotta. Disonesti persino al codice del piratismo: con molte donne a bordo.
Temiamo tanto i barconi quando dovremmo difenderci dagli yatch.
Vengono a insegnarci l’eleganza.
Vengono a svelarci finalmente il lusso.
Anzi, a rinnovare il lusso a se stessi o per i pochi che se lo permetteranno, e a togliere il resto agli altri. Perché lo toglieranno.
Vengono ad arredare il paradiso. Come se si credessero i designer della natura, della bellezza.
Con i gazebo i tendaggi sfacciatamente bianchi, i baldacchini probabilmente, i “troni” i divanetti, ci scommetto.
Dove prima c’era il verde una cascata di bianco, a partire dalla marea di camicie degli unici che lo sporcheranno, a crearsi “chissà come” un accesso al mare. Chissà come, in un posto dove la scogliera non è accomodante, affatto, è calcarea tufacea friabile. In un posto dove la natura previdente e disperata si è appuntita per difendersi, a meno che non si spiani lo scoglio(cosa che abbiamo già visto).
Vengono a migliorare il paradiso, a travestirlo. Questi arroganti piratucoli dei nostri tempi. A fare di quel posto il loro specchio.
Vengono a portarsi il lusso, a rimescolarlo, e a privare sicuramente i bagnanti della possibilità di quel mare, a privatizzare o almeno disturbare limare guastare ciò che è di tutti. Perché di questo si tratta, qualsiasi nome gli si voglia spalmare addosso.
Una mareggiata di profanatori, con yatch che molti servi italiani sicuramente guarderanno sognando sbavando, sperando di poterne catturare solo uno scorcio, di quella finta felicità che ci vogliono imporre.
Perché il discorso è più sotterraneo. E’ più fondo. Perché vogliono farci credere che quella sia la felicità. Che lo sia quell’enorme e ingombrante nulla. Quando la felicità ce l’abbiamo. Ed è nel mare, nella terra. Nella semplicità di una vacanza. In quella naturale e dolcissima fortezza. In quel proteggersi di natura. In quel posto, così com’è, completo. Senza sovrabbondanze. In quella resistenza. Che anche noi dovremmo, a questo continuo saccheggio. Ma non solo il saccheggio della bellezza, ma il saccheggio della verità, di cosa sia e dove sia la bellezza. Non lasciamoci imporre, illustrare, cosa siano la bellezza l’eleganza, il lusso. La gioia. Niente.
Porteranno l’eleganza.
Io ci vedo una rozzezza infinita in tutto ciò che ostentano e rappresentano. Questi vip che nemmeno si sanno. Vip, parola ormai naufragata totalmente, su qualsiasi testa di niente che abbia soldi o vanti un’apparizione sullo schermo. V.I.P. Acronimo da insabbiare, ormai. I vip. Con la loro “nota” eleganza.
Per me l’eleganza è quel sentierino difficile che si chiude per poi farsi sedurre all’inizio dell’estate, l’eleganza sono le canne da bambù sentinelle del percorso, l’inorgoglirsi della roccia che rivendica di non esser sabbia. La sabbia che basta a se stessa, senza troppo apparecchiarla.Trovo elegante la ritrosia degli scogli, la spiaggetta, e quella ancora più piccola ciottolosa a cui si arriva solo nuotando. E quando arrivi e ti fermi, bagni ancora la testa, di solito solo, e osservi il resto. Ed è l’incanto. Pure il silenzio racconta meglio tutto quello che ti è concesso intorno. Di cui puoi godere, ma senza possederlo.
Trovo eleganti gli uccelli che nidificano tra gli scogli, che rischiano la tua testa, le grotte naturali, le piscinette. Le poche conche dove si tocca, dove può permettersi l’acqua anche un’anziana nonna.
L’essenzialità del mare trovo elegante.
Trovo il mare il lusso. La pacificazione del mare.
Sedervisi di fronte, in silenzio, e sentire di far parte di qualcosa di immenso.
Non ha bisogno della tappezzeria il mare, della cialtroneria di queste finte importanze, non ha bisogno del bianco sbattuto di tende e paramenti. Del dj da dietro la consolle, che annuncia il riccone di turno quando entra, o chi ha comprato la bottiglia da 1000 euro per la notte. Con la tipica discrezione della “nobiltà”.
Trovo tutto questo dissonante. Senza senso. Volgare fino all’osso.
Una dolce vita ancora più decadente, non nell’accezione migliore: molto più corrotta vischiosa, catramosa, molto più molliccia. E senza lo sguardo di Marcello.
Ribadisco: il mare non ha bisogno di imbellettamenti. Di incipriarsi. Non è un loro vano da arredare come credono. E’ già arredamento divino in se stesso. E’ già sufficiente. E sono sicura che non si tratterebbe di uno stile rustico sostenibile, di bioarchitettura.
Non abbiamo affetto per i nostri luoghi.
Non sappiamo affezionarci. E non meritiamo l’affetto e la resistenza che ha questa terra, dopo ogni violenza. Dopo ogni scottatura bruciatura incendio. Dopo ogni amputazione. Dopo ogni ritocco. Si fa della chirurgia persino a un certo paesaggio.
Anche gli imprenditori di qui che si sono impegnati in questo progetto, meritano solo di annegare nella cafonaggine e nella finta bellezza di cui si circonderanno. Il loro vacuo entusiasmo, la loro vista ridotta.
Che come risacca torni tutto indietro, senza nuovo accesso!
Purtroppo cosa rimarrà dopo l’inondazione. Cosa rimarrà a galla. Quale bellezza verrà su, boccheggiante. Cosa sopravviverà.
Ecco spiegato meglio il disastro gigantesco della Maglie-Otranto, per far sfrecciare i SUV e gli enormi scatoloni dei signori che verranno. E il Leviatano che sarà il porto turistico di Otranto, probabilmente.
Io ho nostalgia.
Ho nostalgia delle spiagge libere, del mare di tutti, di qualche lido semplice.
La nostalgia del mare per il mare. Di un altro modo di andarci. Della borsa rimediata sempre all’ultimo momento, perché il vero caldo non si annuncia, della solita mise estiva, del panino mangiato davanti al mare. Che gusto abbia quel panino si può spiegare solo mancando qualcosa, qualcosa riducendo. A qualcosa rinunciando. Non credo sia il gusto dei cocktail infiniti sulla spiaggia e del successivo rigurgito. Ho nostalgia dell’acqua da bere, che guarda al mare come un superiore padre. Ho nostalgia delle famiglie che sfacchinano per arrivarci. Anche di quelle con la teglia, cacciata sempre prima di mezzogiorno. Eh sì, sono un po’ Pasoliniana in questo. Degli ombrelloni, così, nessuno abbinato all’altro.
Di chi va al mare per il mare.
Ho nostalgia di chi non ci rinuncia, nemmeno con dieci euro in tasca. Ma ci va, perché va per quello.
Un lido di lusso, l’unico lusso che percepisco è quello di togliere il mare a chi va al mare per davvero. Per il mare. Non per spettacolarizzarsi.
E faranno poi un bel parcheggio?
Io ho nostalgia.
Delle more nere e succose, panciute, ricche, nel finto rigore dei rovi: piccoli lussi nell’apparente miseria.
Di altro mare, di altre aspirazioni, ho nostalgia.
Di altro turismo. Non questo.
Non facciamoci sedurre da ciò che non è nostro.
Facciamoci sedurre dal mare, da questa lingua antica, da questo vicinissimo fratello.
Da questo eterno conducente, trasportatore, ponte.
Da questo serio e saggio maestro, non facciamogli dipingere la faccia come un pagliaccio.
Lui che mai ha smesso di donarci l’onda, che per noi ha faticato tutto il suo tempo, instancabilmente, rallentandosi solo in una bassa marea, nel sé più calmo.
E in noi l’abisso.
L’ho detto, ci stiamo sempre più abituando al brutto.
Ma forse è questo che vogliamo. Forse siamo questo.
O è questo che stiamo diventando.
Il brutto.

2 pensieri su “Il mare indifeso”

  1. Proprio stamattina, in virtù della “secessione” brexitiana, riflettevo su quanto l’Italia abbia sofferto della globalizzazione. Godiamoci il “nostro” mare finché possiamo, perché gusteremo i tramonti non sulla sabbia, o aggrappati ad uno sperone di roccia che divide il paradiso liquido da quello terrestre, ma da un lungomare addobbato secondo il gusto che ha sapore di Rimini.
    Si parla di “possibilità”, “opportunità per il territorio”, tante cose che nessuno ha chiesto, e noi, poveri residenti di un paradiso fieramente zoppicante diventeremo ancora più schiavi di un sistema che non ci sta bene. Noi siamo amici della semplicità, delle piccole cose che trovi immense solo se non abbassi la testa così abituata al patinato scintillante e ai neon balistici di Novella 9000 e mezzo. Ci siamo abbrutiti perché pensiamo che la loro ricchezza sia un po’ la nostra, perché ci aiuta a “sognare” di un’auto più potente, della piscina nel giardino che non abbiamo, dello Champagne che neanche ci piace. Io, onestamente, non penso a me. Ho girato il mondo e ho imparato a discernere tra bene e male; penso ai miei figli, che ancora non ho. Come non ho una moglie, né una compagna. Per me, spesso, l’unico atto “carnale” è col mare, neanche fossi il Doge, che con esso si sposava in cerca di buon auspicio. Loro, i miei figli, semmai il buon Dio abbia in serbo per me qualcosa del genere, non godranno mai della libertà di poter affacciarsi liberamente su queste magiche sponde, che tanto mi hanno riempito cuore, anima, corpo e mente quando ho avuto bisogno di poesia. Adesso, l’unica poesia, è quella da scriversi con inchiostro di ferro e cemento. Noi non siamo VIP, e personalmente non voglio esserlo. Perché non mi sento importante, non voglio esserlo agli occhi di nessuno se non di quelli che appartengono a chi mi ama. Quale vantaggio, essere VIP!
    Io, francamente, spero solo che tutto questo non accadrà mai. Resta l’amarezza della sola possibilità che non avrebbe neanche ragione d’esistere, se solo l’amore millantato per queste sponde fosse realmente amore, che non vuole denaro, ammennicoli o lusso. Perché il vero lusso è la libertà di potersi tuffare senza doversi preoccupare di apparire in un selfie d’autore.

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  2. Io vado a Otranto
    accigliato come un ossesso
    danzando con ninnoli e santini.

    Sono giunto
    alla stazione equatoriale
    a sghignazzare coi saracini e i martiri.

    In questo mare crespato
    ossa rossicce
    fondano una cattedrale,
    il mosaico infernale spruzza alchimie orientali.

    Sono corroso,
    scateno vessilli di occhi da 500 anni!

    La salita di Minerva mi sgrana!

    Mi sanguinano le bende,
    come un pagano esperimento!

    Idolatria delle fedi!
    Mare d’ossidiana!
    Fallimenti… senza fanfare!

    Antonio Sagredo

    Roma, 1971

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