Racconti, Scrittori salentini

Arance

di Pino Refolo

Joseph Jost - Natura morta con arance, limoni e caraffa - Asta Arte moderna  e contemporanea / Un antico casale a Settignano: i dipinti - I - Maison  Bibelot - Casa d'Aste Firenze - Milano
Joseph Jost: Natura morta con arance, limoni e caraffa

Percorrevo la strada che portava alla casa di An­na tre o quattro volte al giorno in quei tempi.

Rasentavo il muro di destra con passo da ladro e mi facevo più lesto quando ero di fronte alla finestra dell’amica. Se la scorgevo in casa, con l ‘aria più innocente di questo mondo, bussavo al suo portone.

Livio aveva assistito ogni giorno alle mie manovre.

Seduto alla scrivania, che era posta di fronte alla porta, poteva vedere tutto ciò che accadeva per strada, senza essere visto.

Un giorno  fu lui stesso a farsi notare.

Avevo appena oltrepassato la porta a vetri eterna­ mente coperta da una tenda e già mi apprestavo a spiccare il piccolo salto che mi avrebbe permesso di vedere se Anna era in casa, quando un sussurro, un sibilo, mi inchiodò a terra: -Psss… senti.-

Era Livio, che dallo spiraglio della porta, mi parlava sottovoce.

Gli risposi anch’io sottovoce: -Dici a me?-

-Si, dico a te-

-Che cosa vuoi?-

-Cerchi Anna?-

-E anche se fosse?-

-Non t’arrabbiare. Volevo solo dirti che l’ho vista

uscire poco fa. Se vuoi aspettarla qui.­ Entrai.

Davanti a me, a destra, il letto, a sinistra due poltrone ed un tavolino, una radio prebellica, uno stipo a muro, di fronte la scrivania coperta di carte, libri, bucce di arance, una armonica a bocca e Bruno: la stanza a pensione di Livio, Bruno compreso.

Cercammo di intavolare una qualsiasi conversa­zione, ma il pensiero di Anna era più forte di qual­ siasi argomento.

Intanto Bruno si era avvicinato allo stipo a muro ed aveva messo fuori tre arance. Ne addentò una, sputando la scorza sulla scrivania, le altre due le offrì a noi.

-Una bella ragazza, Anna.- Bruno parlava con la bocca piena e non capivo il tono delle parole.

Livio aveva aperto un libro e non sembrava curarsi di Bruno che ora strologava: -Ma perché accontentarsi delle imitazioni? Perché patire per delle grossolane contraffazioni? Marylin é là, perfetta, sintesi completa di ogni donna di ogni paese e lingua, dea benevola discesa tra gli uomini per farsi adorare, donna, finalmente di carne e di eterei pensieri, a seconda dei gusti.- chiuse precipitosamente il suo incredibile sproloquio.

Aggirò la scrivania e dall’ultimo cassetto estrasse un foglio gualcito che si mise a dispiegare religiosamente, poggiato sul piano della scrivania.

-Guarda.- disse alla fine – e adora, miscredente.­ Pensai che fosse matto e guardai Livio per averne conferma.

Livio invece leggeva il suo libro e sorrideva, come se avesse già visto altre volte quella scena.

Riconobbi, nel foglio dispiegato, il volto di Marylin Monroe e sperai fortemente che qualcuno ponesse fine a quello scherzo.

Per fortuna Bruno si accasciò, come fiaccato dal­ le sue stese parole, sulla poltrona, mentre Livio continuava a leggere e a sorridere.

Un odore pungente di arance occupava la stanza, come se le sedie i mobili i libri i quaderni ogni cosa fosse stata costruita con bucce o succo di arancia reso solido da qualche diavoleria cui certamente non sarebbe stato estraneo Bruno. Che intanto si era sol­levato dalla poltrona e guardava fuori dalla porta, non per vedere qualcuno, ma per misurare, con la lunghezza delle ombre alla luce solare, il tempo.

Gli dovette sembrare già tardi: -Basta per oggi­ disse -Andiamo al cinema.- e addentò un’altra aran­cia prelevata dal solito ripostiglio.

Livio depose il libro di poesie e propose di andare a vedere “Veneri Rosse”.

Bruno non era d ‘accordo: preferiva un’americanata con Rundolph Scott.

A me nessuno chiedeva niente e mentre Livio se­ tacciava i capelli incremati di brillantina, capii che le Veneri avevano vinto.

-Andiamo- disse Bruno e rivolgendosi a me: -E ricordati: non troverai ancora la perfezione, ma qualcosa che le si avvicina abbastanza.-

Il primo incontro con Livio e con Bruno finì al cinema, a guardare la bellezza tondeggiante di Rhonda Fleming, ancora lontana dall’assoluto che aveva nome Marylin.

Cominciarono da quel giorno i lunghissimi po­meriggi trascorsi con Livio e con Bruno a discutere su tutto e su tutti.

A volte si apriva un’antologia ed uno di noi declamava ad alta voce qualche poesia.

Anche noi, io e Livio, tentavamo di fare versi da dedicare ad una donna. Bruno era il giudice supremo e le sue parole fredde, decise, ci mortificavano: rideva di noi.

Di volta in volta formavamo delle diverse combinazioni di due contro uno per ridicolizzare, mettere a terra quello che era rimasto solo. E doveva avere sempre torto. Anche se diceva che la Monroe era bella, ecc., la coppia trovava motivi validissimi per dimostrare il contrario: la disputa si concludeva con ghigni e sberleffi.

Molto spesso accadeva che Bruno, avvicinate le due poltrone, le trasformava in un comodo divano su cui si allungava, ponendo sotto la testa qualche libro.

Protendeva il braccio verso il mobile bar senza guardare e lo ritraeva insieme ad un’arancia. Mordeva e guardava il soffitto a cupola, al centro, dove si congiungevano i quattro triangoli delle pareti.

Era pronto per le sue trovate.

-Come vorrei essere Nerone- sospirava.

-E perché non Giulio Cesare?-

-Perché Nerone é il più grande.-

-Chi te lo ha detto?-

-Nessuno, lo dico io.-

-Ma se era soltanto un pazzo.-

-Era un filosofo scambiato per pazzo.-

Oppure all’improvviso potevi sentire Bruno im­precare contro Eisenhower, contro Kruscev, per i ri­schi che il genere umano correva a causa di quei due.

L’invenzione della guerra fredda non gli andava giù, gli sembrava un pretesto architettato da una del­ le due parti per organizzarsi in modo tale da sopraffare l’altra. Il genere umano era nelle mani di due uomini mediocri che non avevano diritto, non avrebbero dovuto avere diritto a comparire nella sto­ ria dell’uomo, se solo si pensava ad un Richelieu, un Cromwell, lo stesso Cavour, per non parlare dell’ineguagliabile e mai abbastanza lodato Carlo Martello e la famosa battaglia di Poitiers.

Era così Bruno: lui ci informava delle ultime scoperte, della gara per la luna, della guerra tra due mondi opposti. Per dar loro alla fine il tono di noti­zie da niente, per ridicolizzarle quando, alla fine del suo tratteggio storico, esclamava: “Ma Carlo Martello sconfisse a Poitiers…” citando quella che per lui era stata la battaglia più bella ed affascinante di tutta la storia dell’uomo.

Per ogni campo dello scibile aveva un suo punto fisso, anche se insignificante per altri.

A quel punto riportava ogni fatto nuovo per di­ mostrarne, secondo la sua stringente logica, la pic­colezza. Il suo punto di riferimento rappresentava il capolavoro, l’opera d’arte, tutto il resto era contraffazione, grossolana imitazione.

Carlo Martello, la Casa Bianca,  Leopardi, Nero­ne, Marylin Monroe e, accanto a questi, l’armonica a bocca di Livio.

Nelle lunghe soste in casa, quando d’inverno ci rubavamo a vicenda il posto migliore per riscaldarci accanto all’unica stufa elettrica, Livio prendeva in bocca quello scherzo sonoro e cominciava a cavarne fuori motivi struggenti. Erano vecchi canti popolari, oppure canzonette di moda in quegli anni, ma tutti, quando uscivano dalla sua bocca, assumevano una bellezza nuova.

Il suono dell’armonica era un elemento   indi­spensabile nell’atmosfera di quelle sere.

Mentre declamavo dei versi, Livio prendeva il suo strumento e creava l ‘accompagnamento.

Sulla voce, le note dell’armonica si diffondevano nella stanza leggere, silenziose quasi.

Questa era l’opera d’arte per Bruno.

Ma a me, che lo torturavo coi miei poeti, soleva citare ogni volta, immancabilmente, il suo Leopardi:

-Godi, fanciullo mio…-

E qui scoppiava la disputa letteraria che vedeva Bruno solo a sostenere le sue idee contro me e Livio. Era solo e doveva soccombere. Lo subissavamo, lo coprivamo sotto le citazioni di versi che noi ritenevamo bellissimi. Per farci smettere doveva gridare per la stanza la grandezza di Quasimodo, Montale, Cardarelli.

Almeno un paio di volte la settimana, si procede­ va all’operazione arance.

Il retro della casa dava su uno spiazzo non più lungo di dieci metri e largo altrettanto.

Al centro una cisterna, sul lato destro un pergola­ to che arrivava sino al muro di fronte. Il muretto di sinistra confinava con l’aranceto di una villa enorme che dalla strada non si vedeva nemmeno, coperta com’era tutt’intorno da costruzioni.

Io mi fermavo sulla porta per dare voce nel caso dovesse venire qualcuno, Bruno, con un salto faceva presa con le mani all’estremità del muro, si fermava un attimo per riprendere fiato, con uno scatto del corpo portava i piedi all’altezza delle mani e scompariva tra gli aranci.

Livio compiva la stessa operazione, solo che lui si drizzava sul muro di demarcazione e guardava at­ traverso l’aranceto fin dove lo sguardo arrivava.

Intanto Bruno, così protetto,  faceva  man  bassa dei frutti che volando sopra il muro cadevano all’interno dello spiazzo. Le arance si alzavano sino a raggiungere il posto di guardia di Livio e poi si abbassavano sino a terra: cadevano giù a grappoli, ancora attaccate al ramo.

L’operazione non durava più di dieci minuti.

Presto ricompariva il volto sudato di Bruno oltre il muretto, che si apprestava a ripetere il  balzo di prima.

Raccoglievamo i frutti e ne riempivamo  le tasche, una parte la mettevamo sotto la camicia, il resto, ancora abbondante, trovava spazio nel mobile bar della radio e nello stipo a muro.

Uscivamo da casa con passo da ladri, svelti a scomparire da quei paraggi e allontanarci il più possibile dal luogo del delitto.

Soltanto quando eravamo sotto al viale della stazione ci sentivamo più tranquilli: affondavamo le mani nelle tasche per prendere le arance. Addentavamo i frutti sbucciati a metà ed il succo fresco e pungente ci rinfrancava del rischio che avevamo corso poco prima.

Tutti e tre non  vedevamo l’ora di finire quella strana cena e comunque non  intendevamo gettare via il frutto della nostra pericolosa fatica. Così ci precipitavamo a morsi frequenti su quelle rotondità ed il succo formava rigagnoli ai lati della bocca, e scorrevano sino al collo.

Alla fine le mani erano attaccaticce e gialle, le estremità delle dita ci bruciavano: alla fontana della stazione sciacquavamo viso e mani.

Ci annusavamo vicendevolmente per capire se l’odore era scomparso, ma per quanta acqua buttas­simo sulla nostra pelle, l’odore frizzante delle arance restava.

Infine, sul tardi, la passeggiata rituale.

Sotto braccio, tutti e tre, camminando lentamente tra due fila di cipressi, andavamo al cimitero.

Bruno cominciava a raccontare le sue lugubri storie di defunti che, approfittando di essere tali, si vendicavano di torti subiti da vivi; di morti che uscivano dalla bara la notte, di funerei convegni  d’amore.

Ci spingevamo sino al muro di cinta del cimitero ed oltre, dove si potevano vedere piccole luci accese dinanzi ad una lapide, o dove i fuochi fatui potessero dimostrare le assurde storie di Bruno.

E tutti e tre avevamo paura, ma nessuno si tirava mai indietro. Anzi, ognuno creava rumori incredibili per spaventare l’amico, per leggere sul volto dell’altro il terrore.

Quando ritornavamo tra i vivi, era con un sospiro segreto non emesso, con una segreta soddisfazione per aver superato anche quella sera la terribile prova.

Ciononostante ogni volta si ripeteva il cammino, si ripetevano le storie i rumori le paure. Per non venir meno ad una sfida che nessuno aveva mai lanciato.

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