Poesie, Scrittori salentini

Trittico di un cammino lucano

di Luca Crastolla

 

Craco – Veduta
da Wikipedia: Di Maurizio Moro5153 – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=94541856

 

(con una nota di Alfonso Guida)

                          verso Craco

sulla crosta, l’acqua serpeggia

mostra la mela, nasconde la coda.

Sul cuoio del pachiderma d’argilla

terrestre, crea e corrompe

il vaso, strade e camminamenti.

Sufficiente un oggi; domani se domani:

una religione di mosche cavalline

in odore di sterco, non distante di greggio

Ieri, da qui non è mai passato:

tutto minaccia un disastro antelucano

un’eterna fine.

                                 a Craco

quel che rimane: materia che cede

tempo immobile. D’argilla

scafandri di fantasmi. L’aspra serenità

di trovarsi allo smarrimento tra simili

serenità disordinate, faglie, calanchi:

un urlo; un’intera Giordania muta

nella vertebrata polvere di quattro rabdomanti

caduti nella questua dell’acqua. Madre

che dormi un sonno di mille anni

poi scuoti il capo e radi al suolo le mosche

                               da Craco

Sollevai la crosta del Sinni e

allunai profondamente: stralunai.

Scotellaro nella tasca del pane

le macerie geologiche tra i denti

Tutto un ossario insorge

prosciuga le reliquie, ustiona l’avverbio.

Ogni cento caduti una croce di cicoria

malata. L’estrazione una mala sorte di midolla

“Sono tre poesie con una Lingua, un segno di riconoscimento, quello di Luca Crastolla.  I versi disposti lungamente o secondo brevitas : doppi settenari e quinari, tutto scioccante di improvvisi. Sono componimenti di sicura consistenza prosodica: il ritmo non è poi tanto sillabico, ma commisurato alla distanza tra una fola e un’altra del respiro, che qui è fiato, alito, aria con un odore, senza profumo, senza invenzioni umane, solo il tanfo dell’umidore delle argille e delle capre nere che si arrampicano tra rocce scabre a Craco, villaggio delle lontananze. I turisti nei paesi abbandonati mal si addicono a queste solitudini di tettoniche deformate e faglie mai riassestate; le ferite della terra sono solitarie. Queste poesie, mi hanno rievocato laconicamente uno stile, espressionista, grumoso e pastoso come di chi scava dentro la parola come grembo o tomba, sporcandosi destinalmente le mani. Ho pensato nei contenuti a una poesia che raccontando una storia lo fa con una parola dotata di retroterra, di estensioni retrostanti. Una parola che è già origine e da cui altre parole non possono che partire, farsi flusso o taglio. Ma qui il divenire è stato come pietrificato, mineralizzato da un occhio fotografico da geologo o speleologo. C è la vera, reale immobilità del paese estinto, mai morto. Le fratture, gli enormi interstizi in cui ti sei addentrato hanno registrato un eterno quando si posa sulla polvere.” (Alfonso Guida)

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