di Tina Cesari

Sia che costellino il paesaggio coi muretti a secco, la terra rocciosa, le costruzioni nelle campagne, le torri guardiane, sia che lo circondino di un alone di mistero con i dolmen e i menhir, da sempre il tufo, la roccia, il megalite sono presenze silenziose e vive che ci invitano a dialogare con loro.
E chi, meglio del poeta, è in grado di ispirarsi al paesaggio pietroso del nostro Salento?
Sono proprio loro a condurci per mano e a incantarci con i versi, in questo vagabondaggio reale e ideale attraverso la nostra terra.
A venirci incontro è Antonio Prete, critico letterario, professore universitario e scrittore, oltre che poeta; non a caso, i titoli delle sue raccolte poetiche sono “Menhir” e “Se la pietra fiorisce”.
Dalla prima opera possiamo gustare questi versi dal titolo emblematico:
Giardino di pietra
Non stridono ali nere intorno
ma dall’azzurro dilagando
sgorga fiume d’azzurro.
C’è un nome sulla pietra, c’è una stella.
Menhir di salmodiante memoria.
Nella voce del vento senti il fremito
delle cose che non hanno compimento.
O è l’annuncio della lingua pura?
Sulla pietra fiorita trema l’ombra
della scheggiata vita.
La pietra è testimone autentico di un passato che ci appartiene e che non dobbiamo dimenticare, anche se presi dal vortice incessante della vita e la dimensione del tempo che scorre si può cogliere in due bellissimi versi di una poetessa di Specchia, Maura Pacella Coluccia, la quale scrive che «ci sono pietre che non sono pietre… ma ricordi…ci sono pietre che sono scavate nelle mani dell’uomo che sono memoria».
Anche il professore Ennio Bonea, infaticabile operatore culturale e poeta, immortala il Salento delle pietre con questa famosa poesia:
Sono uno di loro
È fatto di pietre il mio Sud
di terribili uomini in lotta
contro la roccia dei millenni.
Le donne aspettano la sera
i figli che fuggono di casa, intorno al
focolare.
Le figlie dietro i vetri
spiano nella strada
il venditore di percalla
sognando futuri di Penelopi.
Sono uno di loro
uno dei bruciati cafoni,
ma venate non ho mani
come foglie di tabacco
piedi non ho ampi come pale
e duri come zoccoli di mulo
né dal cuore purissimo
so trarre canzoni da lanciare
col fiore in bocca sui balconi.
Vittorio Bodini, di cui Bonea fu studioso e ammiratore, non disdegna certamente di parlare di presenze scavate nell’architettura dei palazzi antichi, quando scrive che «la luna dei Borboni/col suo viso sfregiato tornerà/sulle case di tufo, sui balconi», mentre a Lecce «sui cornicioni corrono/angeli dalle dolci mammelle, /guerrieri saraceni e asini dotti/con le ricche gorgiere» e «un carnevale di pietra/simula in mille guise l’infinito».
La pietra, dunque, non è solo quella usata per costruire le pajare e i muretti, ma diventa la materia prima di principeschi palazzi e a Santa Cesarea Terme, ce n’è uno, in particolare.
Carmelo Bene ci descrive così Palazzo Sticchi in “Nostra Signora dei Turchi”: «attiguo a casa sua stava un palazzo moresco denunciato dal salmastro orientale come un riflesso sbiadito, scrostato sotto le volte degli archi e sulle cupole, abitato l’inverno da cristiani comodi che nell’estate pagana cedevano le due ali al mare, per non morire di fame. Proclamata la fine dello stadio di assedio, quel palazzo sarebbe diventato il quartier generale dei turchi che, di tra le viole del cielo assolato, avevano ammainato le mezze lune».
Anche il poeta magliese Francesco Negro, mentre ammira Santa Cesarea, ci fa percorrere con lui la costa di roccia meravigliosa coi suoi versi: «Spira il caldo scirocco/in questa prima notte d’agosto,/ch’io consumo attorno la roccia/per la litoranea ancor grezza e imbrecciata».
E scendiamo giù, più a sud, mentre proseguiamo con la nostra passeggiata poetica tra le strade polverose e pietrose del nostro Salento: ci troviamo a Lucugnano, dove il barone Girolamo Comi vede nelle «leghe solenni di roccia e cielo» il suo trasfondersi negli elementi naturali e nella sua raccolta di versi, “Spirito d’armonia”, inaugura una sorta di mistica fusione tra sé e gli elementi della natura, come in questa emblematica poesia:
Liberazione
Se io vedessi solo alberi ed animali
roccia avvivata d’albe, mare orlato di cieli,
velari di semenze e crescite di steli,
raggerebbero in me energie celestiali.
Supererei la cupa e laboriosa prassi
del mio sangue, del mio pensare, dei miei passi
e chiuso in castità serena renderei
senza niuno rimpianto e senza niuna colpa
il consumo dell’ossa alla terra, e la polpa
dell’intatta mia essenza a intangibili dèi…
Ma oltre ai costoni di roccia, ci sono anche i sassolini, quelli coi quali giocavano i bambini di un’infanzia ormai passata e alla pietra si associa un ricordo, in una poesia di Donato Moro:
Su strade lastricate
nel mio paese spesso si vedono ragazzi
seduti a gambe larghe
con cinque sassolini giocare d’artificio.
Cinque pietruzze in fila
passano tra le dita senza mai riposare.
Forse sotto gli ulivi in quello stesso luogo
messapici fanciulli
giocarono a quel gioco felici della vita.
E questa si perpetua con mille acrobazie
di cinque sassolini su svelte mani a ronda.
Dal crocchio gioioso
antiche ilari voci.
C’è spesso una nota di malinconia associata alla pietra nelle poesie di Donato Moro, quando leggiamo che «non piove raggio di luna nelle cave dei tufi», e «dalle case di pietra a notte fonda/escono i contadini fra le stelle», mentre il «Salento (è) chiuso palazzo/pietra sempre più vecchia» dove «i battiti del cuore sono creati dalla pietra».
Antonio Verri, infaticabile Don Chisciotte che sogna di fare cultura in un Salento statico e provinciale, spesso avverte un senso di impotenza e «la disperazione/ sono queste pietre sopra/ le ali che non ho mai avuto».
Verri è da sempre conosciuto come il “prestigiatore delle parole” e per lui diventa quasi un’ossessione “trovare parole che reggono”; dunque, diventa un lavorìo pesante e cervellotico quello di usare tutte le parole possibili e rimuovere gli ostacoli al loro libero fluire ed è, per lui, come «scoprire… i sassi / che ho sopra le parole/ messe in bocca».
E quando si riferisce al duro lavoro dei contadini della sua terra, veri eroi di un’epopea dimenticata e rinnegata, scrive che i «sassi (sono) rimossi con ginocchia pesanti»
Persino Salvatore Toma, a torto giudicato il poeta maledetto per il suo “Canzoniere della morte”, bensì riabilitato come il cantore dell’amore e della vita, vede «grappoli d’uva dorata/(che) nascevano dalle crepe/ nella notte celeste» e quando, in un’altra poesia, profetizza il giorno della rinascita della natura, scrive che «tra le aride rocce / un giorno di questi comincerò»; quindi, da una materia inerte come la roccia nasce una nuova linfa vitale…
In un altro famoso brano egli celebra il paesaggio marino di Porto Badisco, la parte più impervia e meno frequentata della costa, eppure tra le rocce “desolate” assiste al “miracolo” dei papaveri.
Ci sono delle rocce desolate
sulla Badisco alta
giostrellate da un vento
profumato di rosmarino
e di erbe selvagge.
Un lontanissimo giorno
mi stesi a prendere il sole
a precipizio sul mare
illuso di possedere
il cielo e la terra.
Quasi quasi mi assopivo
se non c’era
il garrire alto del rondone
a volte urtante
a volte lento come d’estate
il miracolo dei papaveri.
Mi girai di lato
ammaliato da un maggiolino
a guardarlo con occhi di lente
da vicino. Mi pareva
una terrena stella vivente
amori impenetrabili segreti…
che ne sapevo
che tu eri già nata
dov’eri
e che le tue labbra di vela
i tuoi occhi
la tua smania di vivere
brillavano più dei suoi colori?
Il paese di Vittore Fiore è «bianco di mura» e «tenero di tufo», è «calce e luce» mentre «pietre e pietre/reggono l’aria calda del Salento» tra le «megalitiche e astrologiche specchie», e «grande cosa è il mare che batte/alle azzurre scogliere del Salento».
Il poeta ci invita, infine, a visitare il monumento funebre di pietra e ci dice: «Vieni a Patù silenziosa/distenditi solo per poco/ davanti a me /sulle Cento Pietre».
Insieme a Vittore Fiore siamo giunti alla fine di questo breve percorso, con la silente compagnia di tanti altri poeti che hanno scritto di pietre e di scogliere rocciose. E se, passeggiando per il Salento, ci verrà voglia di sostare davanti a un menhir o di ammirare un muretto a secco, sappiamo che un po’ lo dobbiamo a loro, ai poeti, che hanno trovato il tempo di fermarsi a cantare la bellezza.