di Titti De Simeis
Era il 1945. Era passato, il verbo e la storia. Era un tempo al futuro, all’infinito dopo tanta follia, da non rivivere mai più. Era giusto, era vero. Era una promessa da mantenere. Erano folle di piazze, ritorni a casa, toppe da ricucire, insonnia, memorie e infamie da smantellare, paure e magrezze dell’anima. Era il freddo di case perdute, radici irriconoscibili senza più vita, sdentate sulla soglia del disincanto. Ma erano anche i giorni a venire, faticosi di sgomitate, tra macerie irrisolte e nuovi colori, tra libertà incredule e spazi senza più cancelli. Era domani, ancora confuso di gioia a singhiozzi e languori da sfamare. Erano mani senza più fede e spose da riabbracciare. Erano libri da scrivere, da scavare nelle strade sepolte e riportare tra le dita, segnare col rosso per farne vessilli. Era la vita che rientrava da ogni prigione, da tutte le brutte canzoni stonate e stridenti, con la voglia indecente di un ballo ad occhi chiusi. Era il bisogno di dimenticare e stringersi, con l’amore tra i pensieri a ridare un senso ad ogni senso. Era il dopo che svegliava l’apatia e assopiva il dolore, era riconoscersi a mani strette e molliche nuove da infornare. Era il pane, di nuovo. Era tutto, e di nuovo possibile. Era tutto finito. E incredibile. Come oggi. Incredibile che possa tornare. Che l’aria riprenda a tirare su cattive strade e riporti a ricordare, rimpiangere, soffocare di nostalgia e crampi di rabbia, in boati di neve e impronte di respiri spenti, su treni senza più meta, corse senza biglietti e nuove attese, favole per i più piccoli tra zucchero e ninne, terre di abbandoni e vite svendute alla conquista di una ragione sterile e senza vittoria. Il diritto che affossa i diritti, il potere che accende il buio, l’ignoranza che diventa maestra saccente e stupida ancella di menti in pericolo, pronte a farsi, ancora e ancora, miccia dell’incoscienza.
Bravissima, emozionante, straordinario. Complimenti.
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