di Adriana Pulití

[alla “casa nella palude”]
T’amo per le piazze fiorate,
gli spazi aperti contesi dal vento,
i tuoi inverni duri,
mia città.
Che mai so se
repentino s’accende e
dardeggia
il sole,
dopo la pioggia.
Repentina.
Silenziosa.
Continua.
Fitta.
Ostinata.
Né so se il fiocco danzando
fioco
sull’ultimo lido settentrionale
baciando
si scioglie.
Indovino
il tuo cielo livido, basso,
primo sguardo indimenticato di te.
E l’assordante, infame, fuligginosa
frenesia del traffico…
pur mi manca;
rea modernità.
Oh, le tue strade, lastricate…
ogni singola pietra
nell’istante
m’attraversa;
percorse dalla folla
insistente,
assiepata
nel leisure dei boulevards
dei pomeriggi
di brulicanti caffè al sole.
E… la tua profezia grottesca,
tacita,
sottile, pur avvertita,
serbata gelosa nella luce del mezzodì,
nel mistero senza volto delle tue statue verdi.
Ma riecco: m’affaccio in finestre
d’altri soli, d’altri suoni e lingue.
E in esse ancor ben vivo:
con altre anime discorro,
intingo il dito nel vino;
e ugualmente m’appartengono.
Mi scorrono forti nelle vene:
insperata molteplicità!
Mare magnum.
Dolce ubiquità.
Incrocio percorsi di mille vite:
nel narrato si compenetrano.
Ogni patria è mia.
Ogni status e coscienza.
Mi pascio della tua vita,
simile mio,
del tuo eterno cercare
sull’erba bagnata dei giardini della Terra.
Sui campi arsi, reietti della Terra;
aggrediti, incendiati.
In ognuno riconosco il tuo viso,
uomo, come mio.
Non s’assuefa al tuo grido la mia mente.
Sia pur distante. Esso penetra.
Nella carne.
Lo sospetto da qui, dal limitare del mio camino,
nel soffio strano del vento,
nel segreto rotear flessuoso della musciuleddha,
nel diniego del muso del cane.
Mentre sostanzio di Lavoro la mia
fede sul Tutto interrelato
e ancora resistente;
di primavere promettente.
Mentre affondo
– ritrovandoci, alfine –
le mani ingorde nella terra:
celebro la gloria vera,
ammirata,
delle mie unghie
piene di terra.