L’esercito della pace: I poeti
Già seicento anni prima dell’avvento del cristianesimo il primo filosofo greco ad aver lascito un testo scritto di cui ci rimangono solo pochi frammenti scriveva:
“Tutto è nato dall’infinito e tornerà nell’infinito”
Naturalmente sto parlando di Anassimandro della scuola di Mileto, discepolo di Talete e maestro di Anassimene e probabilmente anche di Pitagora. Egli ‘s’interessò di Scienza e Filosofia, ma oggi voglio ricordarlo come poeta. La sua visone sull’origine della vita , sullo scontro degli opposti , del bisogno di dover scontare la colpa di essere nati e di doversi riscattare di un fantomatico peccato originale (da non confondersi con quello di Eva), lo rendono molto simile ad uno dei più grandi poeti della nostra era, quell’Ungaretti che, con un solo verso riesce a condensare tutto il pensiero epistemologico dell’Umanità:
“La morte si sconta vivendo”.
Il poeta, sia che ci parli con i primi vagiti musicali, sia che si esprima col distico elegiaco dei poeti latini o con gli endecasillabi, del padre Dante, opera sulla nostra mente e sul nostro cuore rendendo quanto meno accettabile quello scontro cruento e attualissimo tra il bene e il male che chiamiamo vita e che ci riporterà indietro con la morte nell’ eterno ritorno dell’uguale parafrasando Nietzsche e richiamando appunto l’Apeiron ,l’infinito indefinito di Anassimandro:
Ognuno di noi nasce con un patrimonio genetico diverso per cui ci sono individui alti, altri bassi, alcuni biondi, altri castani e così via. Ma noi non siamo diversi gli uni dagli altri solo nel nostro genoma ma soprattutto nel nostro epigenoma, cioè in quei cambiamenti che sia attuano nel corso della vita. Questi cambiamenti fenotipici riguardano l’epigenetica che ci spiega come trasformazioni temporanee ma anche parzialmente ereditabili, si attuino in continuazione nella nostra struttura genotipica di base, attraverso dei meccanismi enzimatici: metilazione di alcune basi azotate, acetilazione degli istoni o intervento dei piccoli RNA. Cosi, se la genetica ci dimostra che non esistono le razze, l’epigenetica rivaluta, in un certo senso, le teorie altrimenti ritenute obsolete dì Lamarck, affiancandole invece che contrapponendole a quelle di Darwin e delle moderne mutazioni. Noi inoltre disponiamo di due emisferi cerebrali: il sinistro più adatto al calcolo, al razionalismo logico, alla programmazione e quello destro più incline all’astrazione, alla musica, alla poesia. Il corpo calloso è il ponte di unione tra i due emisferi e la fusione di queste due parti, consente lo sviluppo della personalità del singolo, che sarà altresì influenzato dall’ambiente, dalle letture, dalle amicizie e così via. Così ognuno ha la sua sensibilità che cambia con gli eventi della sua vita. A volte la sensibilità è talmente forte in alcuni individui, da sfociare in sofferenza anche quando questa non sia supportata da eventi nefasti, perché un’amigdala difettosa partorirà, per esempio, sofferenze che oserei definire virtuali, ma non per questo meno tragiche. Il poeta riesce a sublimare il proprio dolore, reale o immaginario, rendendolo universale, cogliendo aspetti della quotidianità che ad altri sfuggono e, nel far ciò, svolge una duplice azione: una nel proprio evidente interesse, un’altra nell’interesse della collettività, perché riesce a cogliere, con la sua capacità d’astrazione, quel momento magico capace di fare entrare in fase un numero sempre maggiore di individui. .. Questo fa la musica , questo fa la poesia.
Musica, arte e poesia
Giunto a questo punto mi viene spontaneo pensare ai grandi compositori, ai grandi pittori, ai grandi poeti. Di geni ne abbiamo avuti tanti nel nostro occidente, da Einstein a Galileo, a Newton o ai cultori della fisica quantistica. Ma risulta molto più facile entrare nei loro calcoli matematici che capire come abbia potuto Michelangelo scolpire la “Pietà”. Come faceva a sapere a priori cosa poteva ricavare da quel blocco di marmo, come ha potuto forgiare quelle forme così dense di significati spirituali e umani al tempo stesso? Da giovane, quando calcavo le strade di Roma, più volte mi fermai ad osservarla, rimanendo estasiato davanti alla leggerezza di quelle immagini che ad onta del dolore insito nell’opera, riuscivano a regalarmi calma e serenità, inducendomi peraltro a farmi profondamente meditare. Che cosa c’è nella mente di questi uomini, di questi geni della storia dell’arte? Quali forze misteriose guidavano la mente di Beethoven quando scrisse la nona sinfonia che ci coinvolge in un abbraccio globale, lo stesso abbraccio con cui il colonnato del Bernini abbellisce piazza San Pietro? E chi guidava la mano di Raffaello quando dipinse la “Scuola d’Atene”? Qui il progresso culturale non c’entra niente se già la scuola di Rodi nel II sec a. C. riusciva a creare opere di incredibile bellezza come il gruppo marmoreo del Laocoonte che forse influenzò anche la pittura di Michelangelo! A volte, mentre cerco coi pennelli di sublimare qualche antico dolore, nel silenzio ovattato delle mie notti piacevolmente insonni, lascio guidare la mia mano dalla musica sublime che si sprigiona dalle note di Bach, dai trilli dei suoi concerti brandeburghesi o mi regalo ore di estasi ascoltando i notturni di Chopin o le frizzanti opere di Mozart. Loro si che danno lustro alla nostra condizione umana: non la guerra, non il potere o gli imperi, gli eserciti, le bombe, ma la capacità di astrarsi oltre il sublime, in quella dimensione transumana che ci proietta verso il cielo, verso quella dimensione sconosciuta cui forse Niels Bohr si riferiva quando ipotizzò un Universo implicito che non possiamo vedere ma del quale la Scienza non dubita più.
Davanti a un’opera artistica sia musicale che pittorica o poetica, la scienza cede il passo o forse prende l’impulso per continuare la sua estenuante ricerca verso la verità per uscire dallo sconforto di sapere di non sapere! In questo senso, in questa recondita speranza di un riscatto futuro non necessariamente divino, non necessariamente ultraterreno, non necessariamente individuale vanno interpretate, a mio avviso, le noti dolenti del poeta del dolore. E’ proprio col Leopardi che voglio chiudere questa chiacchierata, per quella briciola di ottimismo che traspare tra tanto straziante pessimismo, in quel fiorellino di ginestra che, nonostante l’eruzione del Vesuvio così devastante per ogni forma di vita che fioriva intorno al famoso vulcano, riesce a crescere, quasi un anelito di speranza, uno spiraglio di luce in un mondo tenebroso e crudele. Il conte Giacomo ci descrive la Natura come il nemico da cui bisogna difendersi: segnato dalle malattie, da una semicecità e deformazioni varie, vede concentrati in sé tutti i mali dell’umanità fino ad un pessimismo universale che coinvolge tutti, uomini e animali: “dentro covile o cuna, è funesto a chi nasce il dì natale”
Ma il suo “Infinito” è quasi un inno alla gioia a ben guardare: attraverso lo spazio angusto della sua siepe si apre al suo sguardo lo sterminato mondo della non conoscenza dove spazio e tempo si annullano e tutto ciò che ci appare come verità incontrovertibile, potrebbe essere mera illusione, transitoria e caduca. Ma quello stormir di fronde carezzate dal vento, quegli spazi popolati di sovrumani silenzi, non sono forse una sublime contemplazione del mondo in tutta la sua inarrivabile bellezza? E poi quell’ultimo verso così carico di purissima, laica religiosità, non è l’espressione consolatoria di chi, pur soffrendo dei male del mondo, della sua non conoscenza, ama tuffarsi in questo mare infinito dove si compie l’eterno, misterioso vagare di tutta l’Umanita? Dino Licci
ottimo articolo. Ciao
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