di Eufemia Attanasi

Nino era un massaro che aveva rilevato con un contratto d’affitto la masseria di suo fratello Peppo, il proprietario, al quale corrispondeva metà del raccolto. A quel tempo le condizioni di vita dei contadini nel Salento erano a livelli di vera e propria miseria perché, durante la Seconda Guerra mondiale, molti terreni coltivati erano stati bombardati o distrutti dal passaggio dei soldati e, soprattutto, mancavano i fertilizzanti e i macchinari.
Egli non era partito in guerra perché aveva i piedi piatti, ma suo fratello Mino sì e non era più tornato. Ricordava sempre il racconto della povera donna di sua madre, che moriva a ogni tuzzu te porta. Un giorno si era presentato a casa un soldato del suo reggimento che le aveva recapitato una lettera, scritta su un pezzo di carta stropicciata, sporca, nella quale il fratello ricordava nostalgicamente la famiglia. Ferito, inseguito, era caduto nelle mani nemiche e di lui non si era più saputo nulla.
La masseria era un centro agricolo importante: Nino offriva lavoro a molti braccianti dei paesi limitrofi, garantendo loro un pasto caldo e un compenso e, a volte, non disdegnava di fare la carità a chi avesse più bisogno di lui. La masseria, quindi, si popolava di uomini volenterosi. Si allevavano mucche, pecore, tacchini, capponi che, a volte, regalava ai nobili del luogo in cambio di piccoli favori; si coltivava l’ulivo, il tabacco, il grano: tutti prodotti che si vendevano al mercato. Purtroppo, anche la vendita degli alimenti spesso era poco redditizia poiché con il tesseramento si era limitato l’acquisto dei generi di prima necessità, tra cui la farina. Inoltre, i prezzi per il commercio dei prodotti erano fissati per legge, così si diffondeva il contrabbando. Il massaro, che si era trasferito lì con la famiglia, faceva di tutto per soddisfarne le esigenze in modo rispettoso; era un uomo infaticabile che riusciva ad assicurarsi delle scorte alimentari per il sostentamento nei periodi di crisi.
Sua moglie Effa, era una donna minuta che, già madre di quattro figli, era in attesa del quinto. La sua vita si svolgeva all’interno della masseria: accudiva i figli, nutriva il bestiame e preparava la cena per i braccianti quando rientravano dopo una lunga e dura giornata trascorsa nei campi.
Era la stagione della raccolta delle olive che vedeva impegnati tutti, quasi fosse un rituale, nella revisione di materiali e di attrezzi: era necessario controllare le scale di legno, i teloni, eventualmente rattopparli, e i sacchi di canapa e lo spago. Una mattina di fine ottobre, come tante altre, alle 5:00 circa, il carretto di compare Uccio era pronto per essere caricato di teloni o reti, bastoni, sacchi, mentre giungevano, chi a piedi e chi in bicicletta, i lavoratori dalle loro case. Nino accendeva la sua Gilera 150, i braccianti e i bambini salivano sul carretto, che era munito di una lampada a petrolio per illuminare il percorso. Appena giunti all’uliveto, il caposquadra Cici accendeva il fuoco che serviva per scaldarsi e per abbrustolire le fette di pane che Effa aveva cotto il giorno precedente nel suo forno. Alle prime luci dell’alba Cici, che non disdegnava i rimproveri neanche ai ragazzi, sollecitava al lavoro: non si doveva rovinare nemmeno un’oliva! Dopo aver steso i teloni sotto gli alberi iniziava la raccolta: alcuni braccianti salivano in cima sui rami più alti, dove si sedevano a cavalcioni e scuotevano le olive che cadevano a terra con un suono cupo.
A compare Uccio quel suono cupo, mesto, ricordava altro: i rumori della guerra, la fame, la paura di notte quando il cielo veniva illuminato dai bombardamenti e lui si rannicchiava su se stesso alla ricerca del calore dell’abbraccio materno. La guerra non aveva giovato a nessuno, mancavano tutti i generi di prima necessità, dal cibo ai vestiti. I suoi ricordi erano dolorosi e frammentari, avrebbe preferito dimenticare i duri bersagliamenti, le battaglie, gli aerei in fiamme, le violenze sulle donne, le lacrime dei bambini rimasti orfani. Di tanto in tanto si trovava un’oliva umida, non per la rugiada del mattino ma per le lacrime che silenziosamente scivolavano dalle gote di compare Uccio che raccoglieva, ricordava, piangeva…
Un racconto coinvolgente. Fotografa il Salento in un momento storico in cui valori e tradizioni sono stati tragicamente strappati.
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