di Lucio Causo
Nella notte tra il 3 e il 4 novembre del 1994 il peschereccio “Francesco Padre”, partito dal porto di Molfetta, non fece più ritorno nelle acque della sua città essendo esploso alle ore 00,30 lungo la costa adriatica del Montenegro. In quella circostanza persero la vita il comandante Giovanni Pansini di 45 anni, Luigi De Giglio di 56 anni, Saverio Gadaleta di 45 anni, Francesco Zaza di 31 anni, Mario De Nicolo di 28 anni e il loro cane Leone. A dare l’allarme fu il pilota di un aereo NATO impegnato nelle operazioni di embargo all’ex Jugoslavia, nella guerra dei Balcani. Poco più di un’ora dopo, una unità della marina spagnola raggiunse il luogo dell’esplosione ma senza trovare superstiti. All’epoca era in corso l’operazione militare “Sharp Guard” per la guerra nei Balcani e subito a Molfetta incominciarono a girare le voci più assurde ed infanganti, raccontava Maria Pansini, figlia del comandante, sul fatto che suo padre trasportasse esplosivo sul suo peschereccio. Le autorità NATO esclusero la possibilità che l’esplosione del peschereccio fosse collegata alle operazioni di guerra nel mare Adriatico.
La Procura di Trani, che aveva aperto l’inchiesta poco dopo la tragedia, ordinò di effettuare la ricerca del relitto in fondo al mare. Finalmente, nel mese di giugno del 1996, il relitto del “Francesco Padre”, colato a picco con 5 uomini a bordo in circostanze misteriose, fu ritrovato a 243 metri sul fondo del mare, al largo della costa del Montenegro, dai tecnici della “Impresub” nel corso delle indagini autorizzate. A vederlo con un raggio di luce fu il ROV (robot subacqueo) dell’Impresa che ritornò sul luogo dell’affondamento dopo qualche tempo. Le prove di quello che accadde in quella tragica notte al comandante Giovanni Pansini e al suo equipaggio, si trovavano ancora in fondo al mare. Proprio le immagini di quel video fecero ripartire le indagini giudiziarie per scoprire quello che effettivamente avvenne durante la navigazione del “Francesco Padre”. Il peschereccio presentava una falla a poppa e una serie di proiettili sulla zona di prua. A bordo c’era materiale esplosivo? Oppure i marinai avevano pescato un ordigno bellico? O, piuttosto, l’imbarcazione italiana venne colpita e affondata? Il Tribunale di Trani voleva trovare la verità e riaprì il caso del peschereccio molfettese sparito nelle profondità marine senza sapere perché. Nel video in questione si vedevano anche i corpi di due marittimi. Ma cos’era accaduto sul peschereccio in quella tragica notte? Una telefonata e dopo due ore la tremenda esplosione. I periti della Procura giunsero alla frettolosa conclusione che a bordo del “Francesco Padre” ci fosse materiale esplosivo che causò l’esplosione all’interno dell’imbarcazione. Alla fine il 13 maggio 1997 l’inchiesta fu archiviata, piena di errori e con i reperti distrutti, perché i cinque marinai erano colpevoli della loro stessa morte in quanto trasportavano armi ed esplosivo da trafficare in Montenegro e l’esplosione era scaturita all’interno dell’imbarcazione.
Nel 2001, per l’insistenza dei familiari che chiedevano giustizia per i loro cari, fu presentata istanza per la riapertura dell’inchiesta e il recupero del relitto. La Procura non fu favorevole e rigettò la richiesta. Le cause dell’affondamento erano gelate da una archiviazione che non rendeva giustizia alla verità, lasciava il sospetto di contrabbandieri per i cinque marinai e isolava le famiglie nel dolore. A Molfetta se chiedevi del “Francesco Padre” si percepiva una ferita profonda e il silenzio a cui si ricorre quando la giustizia chiude i casi trasformando in colpa il diritto alla verità.
Nel 2009, grazie alla scelta di pubblicare il libro inchiesta del giornalista Gianni Lannes, fu rimesso in moto un processo collettivo che rende unita la comunità nella ricerca della verità. La proposta editoriale metteva in evidenza le prove che già erano a disposizione dei Magistrati e dei periti da subito. La notte tra il 3 e i 4 novembre del 1994, nel mare dove il “Francesco Padre” pescava, era in corso l’operazione della NATO “Sharp Guard”. Il libro di Gianni Lannes ipotizzava che il peschereccio, colpito da raffiche di fuoco, era poi affondato. Il peschereccio non doveva essere lì. Chi doveva impedire ai pescherecci italiani di arrivare in quelle acque, non lo aveva fatto. Perché? Dopo la presentazione del libro la città di Molfetta tornò a parlare del tragico affondamento del “Francesco Padre”. Il magistrato Giuseppe Maralfa, che approfondì gli atti del processo cercò di convincere l’allora Procuratore di Trani Carlo Maria Capristo a riaprire il caso.
Nel 2010 l’inchiesta riparte, poi viene chiusa e di nuovo riparte per essere di nuovo archiviata a causa della mancanza assoluta di collaborazione delle forze NATO che non rispondevano alle rogatorie internazionali necessarie alla Procura per procedere ad eventuali richieste di rinvio a giudizio. Il Gip di Trani riaprì il caso per accertare in maniera definitiva se l’equipaggio del “Francesco Padre” avesse a bordo materiale esplosivo, così come si era chiusa la precedente inchiesta, oppure se a determinare l’esplosione e l’affondamento siano state altre cause. Le indagini ripresero con la decisione di andare giù in fondo al mare e cercare le prove. La Marina Militare Italiana con le navi Anteo e il Cacciamine Viareggio, con i fondi messi a disposizione dal Comune e dalla Regione, in due missioni mandò i palombari in fondo al mare alla ricerca di reperti. E finalmente il reperto si trova: un fascio del peschereccio con un foro di proiettile che smentisce le ipotesi della prima archiviazione: lo scoppio dall’esterno e non dall’interno del peschereccio. Quindi il comandante e i suoi uomini non erano pescatori e trafficanti di armi. Le indagini balistiche sul foro danno un nome di serie al proiettile permettendo di determinare che era in uso alla NATO. Partono le rogatorie internazionali. Il ROV aveva cercato le tracce e scandagliato i resti del peschereccio da prua a poppa, sino a trovare le spoglie di due marinai. Uno di essi giaceva sul fondo con ancora gli stivali e la cerata rossa e forse da quindici anni attendeva giustizia e che finalmente si facesse chiarezza su quella vicenda intricata e dai contorni oscuri. Poteva essere stata una tragica fatalità ad aver determinato la tragedia, come l’aver urtato o tirato nelle reti un vecchio ordigno bellico o una mina adoperata nella guerra dei Balcani. Oppure poteva trattarsi di una nuova Ustica : il peschereccio sarebbe colato a picco per attacco esterno.
La differenza è sostanziale perché se fossero vere queste ultime ipotesi si potrebbe riabilitare la memoria del comandante Giovanni Pansini e del suo equipaggio. Così sarebbe stata cauterizzata una ferita ancora viva nel sentimento della comunità marittima di Molfetta.
Nel video il relitto del “Francesco Padre” era adagiato sulla chiglia ad una profondità di 243 metri e aveva la prua orientata per 296 gradi; era ancora abbastanza integro nella struttura dell’opera viva (la parte immersa dell’imbarcazione), ma era mancante della zona poppiera dove rimaneva un grosso squarcio sul lato sinistro. I segni di una devastante esplosione erano evidenti sullo scafo, sia nelle strutture in legno (che apparivano strappate più che divelte), come in quelle di metallo, in molte parti deformate. La “rulliera” salpareti di poppa, unita ancora ad alcune parti in legno, era stata sbalzata a grande distanza ed era stata individuata dal ROV isolata dal corpo principale del relitto.
Le reti apparivano in posizione, come se al momento della deflagrazione il peschereccio fosse impegnato nelle operazioni di pesca, e ciò poteva essere testimoniato anche dai lunghi stivali a coscia (utilizzati solo durante l’azione di “salpaggio” della rete) e che si distinguevano a ridosso dei resti di uno dei pescatori. Intorno al relitto erano sparsi vari oggetti , si riconoscevano pezzi di motore, un salvagente e poi una pentola, un piatto, uno stivale, una scarpa, una busta ancora chiusa di cui non era possibile immaginare il contenuto.
Alcuni reperti vennero rinvenuti dal ROV (1996) già molto distanti dal relitto a più di 250 metri, spinti dalle correnti o trascinati da attività successive all’affondamento, ma per tutto questo la Procura di Trani intendeva spedire laggiù un nuovo Robot per realizzare altre immagini.
La risoluzione del problema, tuttavia, poteva già trovarsi nelle carte processuali acquisite in questi ultimi anni, nelle numerose perizie che si erano susseguite e che mostravano molte incongruenze.
Ma l’11 novembre 2014 arriva ancora una nuova archiviazione. La verità ora c’è. La giustizia no. Alle rogazioni internazionali non c’è stata alcuna risposta. Nessuno degli otto Paesi interessati ha risposto alle rogatorie. Stati Uniti, Montenegro e Serbia dissero che non potevano inviare o di non avere nulla da inviare ai Magistrati di Trani. Quelle risposte sarebbero servite a sapere da quale nave partirono i colpi, chi sparò, chi ha dato l’ordine di affondare il peschereccio, perché non si è prestato soccorso agli uomini dell’equipaggio mentre il peschereccio colava a picco, chi e perché ha depistato le indagini.
Qualcuno ha definito il caso del “Francesco Padre” un’altra Ustica. Il che significa ammettere il senso di sconfitta di fronte alla Giustizia che trova la verità e nega i colpevoli. Giustizia e verità, per mano degli uomini, non si incontrano.
Tuglie, 8 Febbraio 2022 – Lucio Causo