di Umberto Marsella

Da qualche anno viene proposto a molti studenti in procinto di volare verso le facoltà universitarie un test, valido quanto basta, frutto di nobili intenti tra università e industria.
La prova certo non risolve il problema ma un po’ riesce a “sedare” le ansie delle scelte, forse perché pone in una scala le facoltà più correlate alle attitudini e alle inclinazioni dello studente.
L’aspetto che più incuriosisce e diverte, però, è il profilo individuale dell’alunno: una sintesi dei punti di forza e di fragilità che il test simbolicamente e teneramente associa ad un animale. Si diventa così Formica ambiziosa, Delfino mediterraneo, Aquilotto di montagna, etc …
Attualmente, senza alcun test, semplicemente consultando il mio onesto spirito critico mi collocherei in una categoria diversa: quella del muscari comosum, in italiano lampascione, in dialetto semplicemente pampasciune . Una categoria di soggetti piuttosto facile da individuare.
Ma non è stato sempre così.
Nel periodo liceale mi sentii un leone formidabile, in due occasioni di sicuro.
In una in particolare mi vedo letteralmente appeso a quei finestroni del vecchio Liceo incisi dal tempo, dai tarli e dal “taglio e cucito” di quanti da tempo stazionavano quotidianamente giù nel salotto di cultura comunemente detto “chiazza”.
In penombra acquattati, muti e sbilenchi , con cuore e respiro agli antipodi e un’eccitazione che ci faceva quasi …tremare.
Di soppiatto eravamo entrati dal muretto malconcio della palestra, vigili e quasi disfluenti.
La decisione era stata presa nell’incontro “massonico” della sera precedente, a casa di un amico
e anche se il progetto è sempre qualcosa di più della cosa da realizzare, l’emozione era alle stelle anche perché di quel progetto, non delle modalità esecutive , era al corrente il nostro carismatico Preside.
“Qualcuno ”, reo confesso, aveva “cantato”.
Non cambiò niente!
Quel gruppo trasversale (come dice Marco) di studenti poco studiosi, un po’armata Brancaleone , un po’ sessantottini, un po’di destra, un po’stile “arance rubate”, era lì!
Pian piano recuperava i gesti e la parlantina e lo sguardo poteva espandersi sulla piazza che appariva incredibilmente calma, affascinante e traslucida come in un film noir; con quella patina di scirocco delicatamente adagiata sui basoli del lastrico che a tratti assorbiva, a tratti sfumava, faceva rimbalzare, in un gioco di chiaroscuri, le sagome, le luci, le ombre degli spigoli dei palazzi, il profilo del campanile, le vecchie e dolci vetrine dei negozi. Quella sera, da quell’osservatorio, posto di rimpetto alla storica edicola di Falconieri, la nobildonna Francesca Capece assumeva un aspetto insolito che non so descrivere ma che ricorderò sempre.
Ora, più spavaldi, vivevamo in un’atmosfera goliardica che scivolava nell’ironia e negli originali e irriverenti commenti di Giò, convinto di intravedere attraverso i vetri i riflessi perlacei della impeccabile pettinatura platinata di una stimatissima professoressa. Una parola e una risata per tutti: per lo sguardo del presunto playboy Porfirio dell’ufficio di fronte, per gli scansafatiche e i cortigiani di sotto.
Giusto il tempo di ammucchiare banchi e sedie dietro i due grandi portoni d’ingresso e di inalare il buon odore del gabinetto di scienze, del gesso, delle lavagne d’ardesia e legno impresso per sempre nella mia memoria olfattiva, che il suono dell’orologio della piazza, facendoci sobbalzare, ci ricordava che i “rivoluzionari” alle nove(ventuno), massimo nove e trenta dovevano rincasare, senza diritto di deroga!
La mattina dopo Giorgio, obtorto collo, avrebbe dovuto aprire dall’interno il portone laterale per collocare un grande manifesto con la meravigliosa frase : “Il Liceo è occupato”. Consapevole della responsabilità assunta si era alzato prestissimo senza tener conto però delle abitudini mattiniere del Preside: se ne rese conto solo quando, voltandosi , percepì l’autorevole, inatteso e silenzioso spettatore. Per fargli superare lo stato d’ansia furono necessari più di tre pacchetti di sigarette acquistate con la colletta .
Il giorno dopo l’apoteosi.
Cominciavano a manifestarsi intanto le diverse anime e i cervelli rumorosi del gruppo trasversale, l’euforia dei mille alunni e più, i comportamenti bislacchi di qualcuno e l’atteggiamento tronfio di altri. D’altronde capita sempre nelle manifestazioni collettive che tutti abbiano un ruolo importantissimo e qualcosa da raccontare agli altri .Ovviamente a cose fatte.
Ma non è anche questo il senso della partecipazione?
A me l’autunno mette nostalgia e genera un fastidioso senso di ineluttabilità del tempo che passa. Quella irritante consapevolezza di aver perso qualcosa: non il senso di appartenenza politica che si sarebbe evoluta col tempo e che poi la vita magari avrebbe smontato, ma quella energia che rendeva possibile l’impensabile, quella incommensurabile passione che animava e scandiva la partecipazione a ogni evento di quegli “ anni formidabili”.
In autunno, il sabato mattina guardo dall’uscio dell’edicola del buonanima di Falconieri quegli studenti dal talento poliedrico “qualunquemente” avulsi dalla realtà sociale, quasi estranei alle loro emozioni e lontanissimi dalle nostre ingenue e vigorose proteste quando l’essere se stessi era già considerato un atto di ribellione!
In autunno mi sembra di vivere in una zona limbica dove, ogni anno torna la stridente nostalgia del tempo da rivalutare, quello del “ leone formidabile”.