Nel 1865 l’intero stivale italico, ad appena tre anni dall’unificazione nazionale, fu sconvolto da una forte epidemia di colera che mieté vittime a dismisura. Il contagio, scatenato e aggravato dalla mancanza di igiene, ebbe una seconda ondata l’anno seguente.
Così, tra il 1866 e il 1867, anche il Salento fu colpito dal tremendo batterio intestinale e grande terrore si diffuse tra la popolazione. Un’improvvisa scarica di diarrea, un conato di vomito e uno stato di rapida disidratazione parlavano chiaro. E si pensava al peggio, confondendo tra l’altro – allora come oggi – il colera con la peste. Negli ultimi giorni del febbraio 1867, la situazione andò precipitando in numerosi centri urbani di Terra d’Otranto.
Dalle fonti documentarie, dalle tradizioni locali e dalle feste di patrocinio che si celebrano in più luoghi del Salento ancora ai nostri giorni, sappiamo che la popolazione ricorse all’intercessione dei santi. A Lizzanello san Lorenzo, a Gallipoli santa Cristina, a Castrignano del Capo san Michele Arcangelo, a Casarano san Giovanni Elemosiniere, giusto per fare qualche esempio. Spinti dalla paura di beccarsi il malanno, avvertendo i primi sintomi del contagio o in ansia per qualche familiare rimasto a casa colpito dagli attacchi, uomini, donne e bambini si accalcarono a fiumane nelle chiese matrici dei vari paesi.
Canti litanici, preghiere di intercessione e di supplica si levavano al Cielo attraverso le orazioni dei preti e i canti dei fedeli. Così avvenne a Matino, il 27 febbraio 1867, quando le accorate richieste vennero rivolte al patrono san Giorgio, la cui bella statua lignea era stata esposta in chiesa per meglio invocarlo come paciere tra Dio e i peccatori. Giacché, fino a non troppo tempo fa, un’assurda teologia veterotestamentaria ha fatto ritenere i contagi e le calamità naturali come le punizioni divine per l’infedeltà e l’immoralità dei cristiani. Una memoria scritta, conservata presso la chiesa madre di Matino, riporta che durante le preghiere pubbliche ci si accorse con stupore che il simulacro del protettore, ad un tratto, iniziò a trasudare. Un giovane prete del posto, tale don Giovan Battista Nassisi, balzò sul tosello e, con i fazzoletti che i singoli fedeli gli porgevano, cominciò a tergere il sudore dalla fronte del santo, ripassando di volta in volta il fazzoletto divenuto reliquia al proprietario. Il sacerdote, meglio noto come “papa Titta” e mio antenato per parte di mia mamma, sarebbe divenuto in seguito il protagonista di esilaranti “culacchi” in stile papacaliazzesco. Burlevole e arguto, pare che in quell’occasione facesse davvero sul serio. E il flagello cessò, come per miracolo.
Non eravamo lì, quel giorno, noi dissacratori che oggi prendiamo tutto con le pinze. Né sappiamo come andarono realmente i fatti per esperienza diretta. Sta di fatto che uno di quei fazzoletti fu inviato al vescovo di Nardò, ordinario del luogo, mons. Luigi Vetta (1849 – 1873) e un altro, conservato da una famiglia matinese, è risbucato un paio d’anni fa ed è stato consegnato all’attuale parroco che nella ricorrenza del 27 febbraio lo espone alla venerazione dei fedeli.
La processione e la festa di “san Giorgi piccinnu” rammentano ogni anno ai matinesi questa storia devota, meritevole di essere raccontata. Perché è parte della storia civile e religiosa di un popolo, vera o fasulla che sia. Perché è questione di cuore. E il cuore degli altri si visita sempre e comunque in punta di piedi, con la certezza di non esplorarlo mai abbastanza. Visto che, per dirla con Gabriel García Márquez, “il cuore ha più stanze di un casino” (dal libro L’amore ai tempi del colera).
Francesco Danieli, classe 1981, è originario di Galàtone (Le).
Conseguita la maturità classica a Nardò nel 1999, intraprende gli studi di Filosofia e Teologia che lo condurranno alla laurea presso la Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli nel 2004. A Roma, alunno dell'Istituto di Archeologia Cristiana, ottiene nel 2007 il diploma postuniversitario in Archeologia. Sempre nella capitale, presso l'Università della Santa Croce, consegue nel 2008 la licenza in Teologia e la specializzazione in Storia. Presso la medesima Università vince il dottorato di ricerca in Teologia - Storia, discutendone la tesi nel 2010.
Già sodale dell’Associazione Archivistica Ecclesiastica, dal 2010 è membro della Società di Storia Patria per la Puglia (deputazione di Lecce).
Nel 2007 è cofondatore della rivista «Spicilegia Sallentina», semestrale volto alla riscoperta e valorizzazione dei tesori culturali e ambientali di Terra d’Otranto. Ne sarà vicedirettore fino al 2011. Per le Edizioni Universitarie Romane, casa editrice legata all'università "La Sapienza" di Roma, è direttore fin dal 2007 della collana editoriale «Gli Argonauti», strumento scientifico che accoglie studi a carattere storico, artistico e antropologico culturale. Fa parte del comitato di redazione de "L'Idomeneo", rivista della facoltà di Beni Culturali dell'Università del Salento.
Organista di talento e concertatore d’esperienza, tra il 2000 e il 2008 dirige varie cappelle musicali prima nel Salento e poi a Roma. Ha pure composto versi e musica di numerosi inni e canti sacri, alcuni dei quali incisi su cd, variando nel suo repertorio tra il neo gregoriano, il polifonico, il swing e il beat.
È autore di cabaret e sforna esilaranti commedie in vernacolo salentino, messe in scena periodicamente in tutta la provincia di Lecce da varie compagnie teatrali.
Cultore della materia presso la cattedra di Storia Sociale dei Media, corso interfacoltà (Scienze della Comunicazione e Beni Culturali) dell'Università del Salento, collabora con diverse associazioni culturali nazionali ed è invitato a intervenire a conferenze e tavole rotonde in tutta Italia. Intellettuale eclettico e uomo dalle mille risorse, nell'oceano delle sue competenze si è fatto notare a livello nazionale soprattutto nell'ambito degli studi di interpretazione delle immagini, tanto da essere definito «uno dei maggiori iconologi italiani, capace di penetrare le opere d’arte – soprattutto quelle a soggetto religioso – palesando il messaggio criptato che committenti e artisti vollero imprimere in esse secoli e secoli fa».
Ciò che stupisce e ammalia della sua persona, però, è la stravagante e al contempo armonica commistione tra sfera intellettuale e sfera manuale. Acerrimo nemico del cemento armato, è tra gli ultimi custodi della muratura leccese all'antica, che trova le sue massime espressioni nelle tipiche volte a botte e a stella (spigolo, squadro, padiglione lunettato). Formatosi alla "scuola edile" pratica dei vecchi maestri, durante un lungo apprendistato giovanile, condivide con passione le antiche tecniche con quei "discìpuli" che, andando controcorrente, si affidano alla sua competente esperienza. Per loro e per molti altri è "Mesciu Cicciu". Unico titolo che lo inorgoglisce! Titolare di una piccola impresa individuale di muratura, è questa la professione che garantisce il sostentamento a lui ed alla sua famiglia, in aderenza all'antico adagio oraziano, per cui "carmina non dant panem".
Ha scritto vari volumi e ha firmato numerosissimi apprezzati contributi a carattere storico, artistico, antropologico e teologico per opere miscellanee e riviste cartacee e telematiche.
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