Gualtiero Marchesi ha detto: “La cucina è tempo e memoria, tanta gente non si ricorda un solo piatto di locali stellati dove ha cenato: per me non ha senso”.
Allo stesso modo, non ha senso che nessuno si chieda quando è nata una determinata ricetta, come è cambiata e come è entrata nella storia della gastronomia locale, nazionale o internazionale.
L’enogastronomia è cultura materiale: analizzandone la storia, è possibile capire quali sono le risorse di un territorio, quanto le dominazioni straniere e le scoperte di nuovi mondi possono aver influito su di essa, quanti e quali commerci si sono sviluppati nel corso dei secoli per arricchire il paniere dei prodotti alimentari e la fantasia in cucina.
Questa non è materia per profani: un’analisi dettagliata dell’enogastronomia in chiave storica richiede ricerche approfondite e letture di fonti non sempre facili da reperire. Un saggio di questo calibro non è perciò un libro da spiaggia. E in effetti, “Letteratura gastronomica del Meridione d’Italia” di Gennaro Avano non è un testo “facile”, non solo per l’intento saggistico dell’opera, ma proprio per il contenuto ricco di bibliografia, che copre un lasso di tempo lunghissimo e un’infinita serie di vicende geopolitiche e culturali.
L’autore ha svelato interessanti spunti di riflessione: come è vero che fra le più antiche fonti letterarie relative alla gastronomia meridionale si possono annoverare opere risalenti al V sec. a.C., periodo d’oro delle colonie greche in Italia Meridionale, è altrettanto vero che la letteratura gastronomica meridionale può considerarsi — senza errare — come “la capostipite vivente di tutte le tradizioni letterarie d’Occidente”. Si citano nell’opera i “poemi-ricettari” di area greco-sicula, di Epicuro Siracusano, di Miteco e di Archestrano di Gela (inizi del V e del IV sec. a.C.), dai quali si apprendono informazioni circa il cibo consumato sulle tavole dell’epoca (ostriche, anguille, tonni, lepri, pane, vino…), ma anche, a rifletterci bene, dati circa la pescosità dei mari, le terre più produttive in termini di raccolto, i metodi di conservazione dei cibi, gli accostamenti di vini, ecc. Per citare qualche stralcio: “… nella gloriosa isola dei Siculi, le coste di Cefalù e Tindari sono vivai per tonni…”; “Ad Eno pesci-topo e ben pasciuti, Ad Abido le ostriche, a Pario i granchi…”; “Ottimo da bere è pure il Tasio se vanta autorità d’anni e di propizie stagioni…”.
L’opera è, per certi aspetti, una conferma per il Meridione: seppur limitata alla storia della gastronomia, qui siamo lontani da una tanto politicamente sfruttata “questione meridionale”, perché qui invece troviamo punti di orgoglio e di affermazione (almeno per me, poiché gli intenti dell’autore credo siano quasi sicuramente filologici): la cucina meridionale va considerata un “incontro riuscito tra esperienze e culture”, che le conferisce, prima di tutte le altre, una connotazione nazionale. Il Montanari, autore de L’identità italiana in cucina, citato nel testo, specifica che “molti aspetti della gastronomia ‘italiana’ seguono, storicamente, un percorso da sud a nord: basti pensare alla pasta secca o al riso, che appaiono per la prima volta nella Sicilia arabo-normanna, a verdure come gli spinaci e la melanzana, introdotti sempre in Sicilia dagli arabi, così come la canna da zucchero e l’arte dolciaria che ne derivò…”.
Pertanto, a dispetto delle trasmissioni odierne sul meteo che cominciano dal nord Italia, “1. l’evoluzione della tradizione italiana ha uno sviluppo da sud a nord”; 2. la storia gastronomica meridionale è una storia unica, diremmo nazionale, assimilabile a quella francese; 3. la letteratura afferente a questa tradizione è la prima d’Occidente” (pag.18).
Se quanto finora sintetizzato non dovesse convincere a una lettura attenta di questo libro, posso aggiungere ancora qualche piccola curiosità in merito al suo contenuto. La bibliografia è lunghissima, gli appassionati di storia troveranno perciò nuove porte da aprire e nuove ricerche da avviare, perché le 166 pagine sono solo — passatemi l’involontaria battuta — un assaggio del tema gastronomico.
Inoltre, per chi come me ama confrontare le varie ricette nell’arco spazio-temporale della lunga tradizione gastronomica italiana e internazionale, non potrà non trovare stimoli interessanti nel vedere come, già in epoche lontanissime, venisse usato lo zafferano selvatico, la porcellana e una miriade di altri ingredienti, oggi sconosciuti ai più. Nei frammenti di testi letterari che vengono riportati in stralcio dall’autore, si possono ritrovare: ricette tipiche come le lasagne in versione medievale con parmigiano, Cascio di Puglia, zucchero, cannella, e altro ancora (p. 95); termini antichi, oggi mutuati nel dialetto, anche se talvolta con qualche variante culinaria come i maccarroni; ricette come la scapece, in una versione totalmente differente da quella attuale.
Passando dall’antichità al Medioevo e da qui all’Ottocento, l’autore giunge anche a trattare le fonti letterarie straniere che si sono interessate alla gastronomia meridionale, con ciò confermando la valenza culturale che quest’ultima ha avuto non solo in Italia.
Lungi dal voler essere esaustivo, il libro, che talvolta abbandona la linearità espositiva a vantaggio della quantità informativa, non manca di “spessore”; pur tuttavia non fornisce, per chi se lo chiedesse, nessuna informazione in merito alla provenienza sociale delle ricette, nulla cioè è detto su chi consumasse una determinata tipologia di piatti. Sappiamo infatti che numerose sono state le carestie legate a eventi naturali o bellici, ma le fonti letterarie non parlano di chi potesse accedere a determinati ingredienti come la carne, i frutti di mare, ma anche l’olio d’oliva di cui si fa gran cenno. Molte le deduzioni che si possono fare, ma — si sa — le ipotesi vanno comprovate con scientifico metodo storiografico. Pertanto, gli interrogativi che possono sorgere durante la lettura di questo libro potranno essere materia per nuovi studi.