Cultura salentina, Saggio, Scrivere il Salento

«… Ecco, fate solo ciò che vi incanta…»: Antonio L. Verri

di Tina Cesari

Accanto al suo amico poeta Salvatore Toma, Antonio Verri è annoverato tra i poeti maledetti, anzi i selvaggi salentini.

In un contesto come quello della provincia dove, per usare le sue stesse parole, «si passa il giorno con falsità, ipocrisia e sole che scotta», chi come lui, voleva attivare un cambiamento, non poteva che apparire a dir poco stravagante.

In una lettera ad un amico, Verri scrive: «Ormai ho deciso parecchie cose sulla mia vita e se non finirò alla Poe, m’avvicinerò. Alla Pavese mai». Sono pienamente condivisibili le parole dello studioso Rossano Astremo che, nel suo saggio edito nel 2013 dal titolo Con gli occhi al cielo aspetto la neve, sostiene: «quello che sembra suggerire Verri all’amico lontano è che se la sua vita non avesse avuto da lì a poco un radicale cambiamento avrebbe trovato nell’alcol un buon diversivo nel quale annegare, senza però mai compiere l’estrema scelta dell’amato Pavese»[1].

Si delinea, così, chiaramente, l’autentico profilo del poeta e infaticabile operatore culturale, un’icona venerabile, come lo ha definito il professore Eugenio imbriani.

Fare vera poesia e letteratura, contro la poesia che lui definisce «da passeggio o da paesaggio», svincolarla dall’appannaggio dell’Accademia, fare militanza culturale, scoprire nuovi talenti: questa era la missione del presunto poeta maledetto.

Antonio Leonardo Verri

Difendere la funzione sociale della poesia, per non renderla succube dell’editoria, diventa l’obiettivo promosso con la pubblicazione del “Quotidiano dei poeti”, stampato a Maglie dal 1989 al 1992, con il quale Verri si prefiggeva di creare un giornale che quotidianamente offrisse le poesie ai lettori, per andare oltre i confini degli addetti ai lavori; soprattutto, egli intendeva  stampare una rivista che partendo dalla periferia si diffondesse in Italia; infatti, essa venne distribuita anche a Roma, Milano, Napoli e in altre città italiane.

«Mi piace pensare a un Verri come ad un organizzatore di culture non ufficiali, antiaccademiche, non egemoni», sosteneva  il giornalista e intellettuale Sergio Torsello nella presentazione del libro dello scrittore salentino dal tiolo Il fabbricante di armonia: Antonio Galateo, pubblicato nel 1985 e riproposto nel 2004[2].

Il monito di Verri contro l’immobilismo della cultura salentina meglio si esplica attraverso le parole tratte da un articolo comparso nel maggio del 1977 sul giornale “Caffè Greco”, fondato da lui stesso e da Giovanni Delle Donne: «il primo verbo della meridionalità dovrebbe essere l’umiltà, quello della salentinità solo questo: rimbocchiamoci le maniche… abbiamo una brutta gatta da pelare: la nostra provincia».

E ancora, nello stesso articolo, egli chiarisce meglio il concetto di provincia: «provincia è quel paese strano e disperato attraversato da altrettante strane, disperate e meravigliose energie…provincia è anche l’oggetto di una violenza, di uno sfruttamento intellettuale perpetrato da chi ha interesse che sia così e solamente così: violenza e sfruttamento della cultura locale, che è mortificata e degradata da una sempre continua concentrazione di potere culturale».[3]

A proposito di “Caffè Greco”, nel febbraio 1977, egli aggiunge «quel che vogliamo darvi è un giornale incontro in cui confluisca tutto ciò che c’è di buono e di vivo nel nostro Salento… cerchiamo di essere storici di noi stessi, di vederci dentro, di parlarci, di chiarirci, quanto più è possibile tutto il possibile».

In un articolo, comparso  nel 1984 su un’altra rivista che Verri aveva fondato, ovvero “Il pensionante dei Saraceni”, egli, dietro la finzione di un personaggio inventato, un omino di carta e piombo, sostiene che odia «l’affettazione, l’ostentazione di cultura, gli epigoni, i tecnici di quasi tutto, i poeti e gli scrittori domenicali, gli editori colmi di vasellina, questo grosso quasi-bordello letterario nazionale segnato da una scrittura caramellosa e distratta, dalla fretta, dal perbenismo, dal «lei non sa chi sono io. Tutto questo lo odiamo anche noi!». [4]

La disperata ricerca di fare qualcosa di nuovo per evadere da un ambiente chiuso e ristretto come quello culturale salentino, lo costringe ad ammettere che  «C’è troppa pace al Sud/e poi c’è troppo Sud e basta», in un componimento che fa parte della sua raccolta poetica Il pane sotto la neve, pubblicata nel 1983 e riedita dalla casa editrice Kurumuny nel 2003.[5]

Il suo atteggiamento ambivalente verso il Sud in qualche modo è assimilabile a quello di Bodini, a cui egli fa riferimento con la citazione del monaco rissoso  che compare nella dedica al poeta, presente nel volume appena citato e in questa costante lotta per il rinnovamento egli riconosce  la figura di Bodini come padre che intendeva incidere «su un terreno sano/un terreno invitante» e che immortala in un famoso componimento: «davanti non abbiamo altro/che la nostra terra vergine/su cui Bodini/intendeva operare» Nonostante il senso di insofferenza per quest’ambiente egli trova, comunque, modo di  scrivere:« La pena è vera e non sei tutto Sud/se non la miseria che non ti sento » e «cresce nelle tue mani il pane».

Questo può accadere, se insieme con lui c’è «Stefan, l’idiota del paese/lo sconsolato che grida /il sognatore da gran bazar» e l’immagine del pane, metafora della vita, si materializza quando scrive «potrebbe, perché no, anche essere Edoardo /la sua pura macilenza il suo candore», riferendosi all’amico artista De Candia.

E, allo stesso modo, «a chi ha svenduto lo stupore di un tempo», per citare un suo famoso verso, il poeta risponde: «Oh, come faccio a spiegarti che qui il niente non può trovare casa, che non siamo molto distanti dalla vita o che solo questo è la vita». Il pane diventa, così, il simbolo di quella linfa vitale con la quale egli vorrebbe nutrire il suo Salento e il titolo dell’opera non può suggerire un casuale accostamento a uno dei romanzi di Ignazio Silone, intitolato, appunto Il seme sotto la neve.

Il protagonista, Pietro Spina, il perseguitato, il clandestino in fuga, compie un semplice gesto vedendo un piccolo seme germogliato in una zolla di terra qualsiasi, non terra scelta e lui, per aiutarlo a sopravvivere,  fa sciogliere un po’ di neve  per fornirgli l’umidità necessaria.[6]

Ci piace pensare a un Verri che, come il protagonista del romanzo, con la sua silloge poetica Il pane sotto la neve, vorrebbe svolgere un’operazione analoga ovvero far nascere la cultura in un terreno qualsiasi, non quello preparato solo per accogliere la cultura «dell’arroganza», in una Lecce divenuta «centro di gite culturali, centro di un giro più vivo di merci, paccottiglie e donne…», alludendo alla presenza, nel capoluogo salentino, di Fortini e Luperini, come scrive in una lettera a Vittorio Pagano.[7]

Ci spingiamo oltre: è curiosa la coincidenza che il romanzo di Silone sia dedicato alla moglie Darina e una poesia di Verri, intitolata Neve sdorata, tremolante che fa parte de Il pane sotto la neve sia dedicata a Daria.

Ma questa sua rivolta, questo suo desiderio di vedere nascere il pane sotto la neve, cioè di vedere nascere qualcosa di vitale nell’immobilismo culturale salentino, si traduce in versi efficaci come questi: «Se qualcuno ti parlasse di un mondo che ormai gira sul niente, ti prego, stringi i pugni mangiati il cuore».

E poi, con lui, in questa impresa c’è Salvatore Toma, al quale è legato da un’amicizia viscerale, dallo spirito libero, oltre che dal senso della rivolta destinata, purtroppo, al fallimento.

L’onestà intellettuale di Verri lo porterà a pubblicare più copie della raccolta dell’amico, intitolata Forse ci siamo, all’interno della collana Quaderni del pensionante, quando uscì in concomitanza con la propria silloge poetica il pane sotto la neve; decise allora di pubblicare il doppio delle copie dell’opera di Toma, come è sottolineato dallo stesso studioso Rossano Astremo, «quasi a significare la sua convinzione che i versi dell’amico meritassero una maggiore diffusione dei propri».[8]

Anche la morte è vista da lui non in maniera drammatica ma «In questi posti di mare/ dicevo/ dove la morte, se viene, /somiglia alle storie (oh, quante)/ profumate, al miglio stompato /ai crateri del cuore, ai gesti/ teneri e scoperti/ di mio padre, ai suoi corti avvisi./ Al pane.», «imparando a sprezzare la morte / quando si mostrerà /quando avrà negli occhi un ghigno /quando ti chiederà qualcosa».

«Forse la morte non porta via tutto, o forse volevo/solo dirti di un luogo di luna, /di un castello imbiancato/dei respiri di Idrusa.»: ecco l’anima di Verri.

Un altro aspetto estremamente importante in Verri è questo perdersi nella ricerca ossessiva della parola che egli confida al giornalista e scrittore Aldo Bello in alcuni versi di una sua poesia: «Mi chiedo, caro Aldo, come concertare lo strazio, le multicolori occasioni, le ossessioni legate alla scrittura, i giochi della mente, lo stupore».[9]

Affascinato dal senso nascosto di una parola, dalla ricerca di significati non noti, scrive La betissa, storia composita dell’uomo dei curli e di una grassa signora, pubblicato nel 1987, sulla Rassegna Trimestrale della Banca Popolare Sud Puglia, caratterizzata dall’«uso sempre sapiente e originale del linguaggio e su un premeditato preciso rovesciamento dei valori basati su di esso», come scrive Aldo Bello nella prefazione all’opera, riedita da Kurumuny[10]; lo stesso personaggio, il curlo, non fa altro che «Compostare questa lingua che non regge»[11].

L’ ossessione per la parola si materializza nell’accorata confessione alla madre che si esprime con le parole: «Come già sai, anche se ti sei chiesta sempre il perché io continuo a scrivere, continuo a cercare parole che dicano, che facciano fede ai diversi  e a volte strani momenti della mia vita, che molti dicono povera», e «…comunque alle parole condannato, parole uso», «cerco, e devo cercare madre, continuamente /modi nuovi e parole di sangue »; egli, dunque, cerca in lei una sorta di approvazione per giustificare questo suo viaggio sconvolgente alla ricerca del termine.

Allo stesso modo, egli vuole giustificare alla madre anche il senso del suo fare poesia: «…mi chiedi a che serve poesia/parole stupide, madre, ma sonore/di quelle che dilizian  dint’oricla…mi chiedi a che serve poesia /non ti preoccupare, aggiusto tutto /avrò senso/dormirai la notte…».

Leggendo La betissa, evidenti appaiono i legami con lo sperimentalismo dell’opera Ulisse di James Joyce, un’altra lettura importante nella formazione di Verri, il cui personaggio principale, coprotagonista di Leopold Bloom, Stephen Dedalus, altro non è che l’alter ego dello stesso Verri, sovente nominato nelle sue poesie, divenendone anche il suo interlocutore privilegiato.

I rocamboleschi giochi di parole dell’opera Ulisse che caratterizzano la sua scrittura con la presenza di termini in latino, greco francese, neologismi e parole onomatopeiche secondo la tecnica dello stream of consciousness  sono certamente assimilabili ai guazzabugli linguistici presenti ne La betissa .

Il personaggio  presente nell’opera, il curlo, gioco antico e simbolo forte della cultura salentina, è indubbiamente lo stesso Verri che «era chiamato l’uomo dei curli a indicare forse quel suo essere insieme intellettuale raffinato e cosmopolita e al tempo stesso così legato alla cultura e alla memoria storica di questa terra».[12]

Ne La betissa il poeta militante si ritiene «Felice di essere curlo rosso dell’uomo dei curli », e aggiunge, che «per non essere invasi occorre sapere».

Ecco come egli manifesta la denuncia di una società schiacciata dalla «Forza, viltà, avidità… nel mondo esiste come tumore… Avrei fatto meglio io stefan a non strappare quell’ altra messe di fogli che chissà perché ho ritenuto inutili».

L’ Autore sembra rivolgere dei moniti al lettore quando gli scrive: «Grida adesso che gridare apre alla vita», «Grida e di nuovo col tamburo squassa l’aria», «E grida giorno dopo giorno è una farsa», «E grida giorno dopo giorno è teatro per soli squali».

Un aspetto complementare alla vitalità linguistica e stilistica è, in  Antonio Verri, questo quasi fanciullesco e sognante approccio alla vita; in una lettera ad Aldo Bello, egli scrive: «Credo negli occhi spalancati dal sogno, nei buoni versi che riscattano da ogni deficienza».[13]

Se pensiamo che uno dei libri che hanno appassionato l’avido lettore Verri è stato un autore della beat generation, Jack Kerouac, non ci stupisce di trovare espresso questo  pensiero del protagonista, che è anche quello del poeta di Caprarica, nel suo celebre romanzo, intitolato  On the road: «correvano insieme ma allora, danzavano lungo le strade, leggeri come piume, e io arrancavo loro appresso come ho fatto tutta la mia vita con la gente che mi interessa, perché per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vita, pazzi per parlare, pazzi per essere salvati, vogliosi di ogni cosa allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o dicono un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle…».[14]

E così che l’incanto continuo in cui Verri vive, attraverso la poesia, si materializza nei personaggi da lui creati o rivisitati come Antonio De Ferrariis, detto il Galateo, grande figura di umanista, intellettuale a tutto tondo, greco e salentino.

Come sostiene lo scrittore e dirigente scolastico Antonio Errico[15], nella postfazione all’opera Il fabbricante di armonia: Antonio Galateo, «Antonio Verri, dunque, si cerca un personaggio che ha inventato e modellato con l’intenzione  più o meno consapevole di farne un autoritratto. Il Galateo, allora, diventa rivolta, trasgressione e poi taedium vitae, spossatezza, consapevolezza di non poter volare. Ma anche desiderio di volare.».

Lo stesso autore dichiara che ha creato «Un Galateo diverso, un Galateo con panni d’arlecchino…oh, grandioso figlio del nulla, ma …è Stefan»[16], dove addirittura il Galateo si trova in compagnia di quello Stefan di cui si è scritto in precedenza.

Proprio il poeta pone sulla bocca del personaggio espressioni come «Questi occhi che nella mia camera sanno essere vivi sfreccianti, spettatori delle cose del mondo, predatori».

E, ancora, il Galateo dice che, «Quando a sera rientro nella mia camera, ho gli occhi come allora, grandi trasparenti, lucidi, avidi»: egli sta guardando con gli occhi di Antonio Verri.

Lo spirito cosmopolita e la curiosità per l’altro, diverso da noi solo per cultura, suggerisce al personaggio di Niceforo che dialoga con il Galateo espressioni come queste: «Fraternizzai coi turchi, con quest’ altra parte del mondo che trovai fantastica», e, ancora, «L’accettazione dei turchi è cosa normale per una civiltà come la nostra, propendiamo noi stessi per una grecità a tutto tondo» e « Malato d’ ulissismo, questo sì…non so… ma a me i saraceni non fanno paura».

E quando si deve difendere dalle accuse che gli vengono rivolte, utilizzando come pretesto la sua familiarità coi Turchi, così si confida con Jacopo Sannazzaro: «Quanti sanno che proprio i Turchi hanno fatto di tutto per non attaccare Otranto?», «I Turchi panciuti e portatori di buon caffè» che «Non di rado dal mare… lanciavano strani dardi d’amore».

Infine, lo stesso Galateo fa questa considerazione: «Sono un greco anch’io non è una novità», «Ma allora, siamo un po’ turchi quaggiù».

Insofferente, come lui stesso dice, all’ipocrisia, l’adulazione, il fabbricante d’armonia, il Galateo viene definito come «Un uomo deciso ad apprezzare tutto il bene della vita», «anima inquieta, seppure armonica, col piacere e il gusto della vita». Non è questo, forse, un fedelissimo autoritratto dello stesso Verri?

Il credo del poeta non si manifesta forse nell’espressione dello stesso Galateo, «Amo chi ha fede nella ragione, nella sete di conoscenza, nella giustizia, nella libertà»?

Antonio Errico è riuscito, con una sola espressione, a cogliere bene il senso dell’opera Il fabbricante d’armonia scrivendo che «La prosa dei monologhi raggruma l’esistenza sfarinata del personaggio che parla di sé al narratore e quella candidamente stanca del narratore che parla di sé al personaggio»[17].

Non si può non concludere questo tentativo di delineare un ritratto della complessa figura di Verri, poeta maledetto, forse perché promotore di un differente modo di fare e promuovere  cultura, senza tener conto del ritratto che ne ha saputo fare Sergio Torsello delineando «lo straordinario spessore di un’ attività culturale che travalica il senso delle mode, non si lascia sedurre dalle sirene dell’industria culturale e si disloca sul difficile terreno dell’impegno, della ricerca, della sperimentazione».[18]

Ecco, questo il senso dell’esistenza dell’uomo dei curli.

 

 

[1] R.Astremo, Con gli occhi al cielo aspetto la neve, Manni, Manduria, 2013, pag.15.

[2] S.Torsello, in A. Verri,  Il fabbricante d’armonia: Antonio Galateo, Kurumuny, Calimera, 2004, pag.9.

[3] Caffè Greco, maggio 1977, p.1 in Il pane sotto la neve, Kurumuny, Calimera, 2003, pag.99

[4]Pensionante de’Saraceni, foglio, luglio 1984, p1, contenuto nel volume Il pane sotto la neve, kurumuny, Calimera, 2003, pag.117.

[5] Il pane sotto la neve, kurumuny, Calimera, 2003, pag.72.

[6] Il seme sotto la neve, Mondadori, Cles( TN), 2018, pag.184.

[7]  Pensionante de’Saraceni, rivista,n.s.a., a.II,n.1, nov.1985-giugno 1986, pp.63-64, contenuta nel volume Il pane sotto  la neve, kurumuny, Calimera, 2003, pag.117.

[8] R.Astremo, op.cit., pag.63.

[9] A. Verri, Il pane sotto la neve, Kurumuny, Calimera, 2003, pag.116.

[10] A.Bello, in  A.Verri, La betissa, Kurumuny, Calimera, 2003, pag.8.

[11] A,Verri,op.cit.,pag.42.

[12] Gino Bleve, in La saga dei curli, Laborgraf, Tricase, 1997, pag.5

[13] In R,Astremo, op.cit.,pag.49.

[14] J.Kerouac, On the road, Oscar Mondori, Cles (TN), 1976, pag.38.

[15] A.Errico, in Il fabbricante di armonia: Antonio Galateo, Kurumuny, Calimera, 2004, pag.116.

[16] A.Verri, op.cit., pag.95.

[17] A.Errico, op.cit.,pag. 117.

[18] S.Torsello, in La betissa, Kurumuny, Calimera, 2005, pag.11.

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