Poesie, Scrittori salentini

La finestra chiusa

di Katia Giannotta

Alessandro Pagani: Untitled, (olio su tela 115x95cm)

L’insegna luminosa della vecchia trattoria si accendeva e spegneva e Carla si accorse che anche gli ultimi dieci anni della sua vita erano stati una breve ed intensa intermittenza.

Le cose le cadevano addosso ammorbidendosi e non avevano più quegli spigoli pungenti da cui si ritraeva e che le facevano male.

Somatizzare il dolore, le avevano detto, ma quella prima parola le faceva venire in mente solo stranezze da fare sul suo corpo, su quella carne da cui era partito, ben dieci anni prima, il suo oscuro male.

In un attimo, i ricordi trafissero il tempo presente e la sveltezza del pensiero la riportò ad una gelida notte invernale; c’era stato un violento temporale e il salone di casa sua era illuminato solo dalla fioca fiamma di una candela, posata sul tavolino di acero.

Marco, suo marito, se ne stava sdraiato sul divano. Il viso era duro nella penombra ma lo stato di torpore che lo aveva colto, dava alla sua espressione un’apparenza tenera e, a guardarlo, una dolcezza materna le aveva invaso l’animo.

Nessuno avrebbe potuto considerarlo come l’uomo che era in realtà, lui conosceva bene l’arte e i modi di dissimulare l’asprezza del suo animo allo scopo di conquistare l’altro, e lei ne era certo stata la prima e più importante vittima.

Qualcuno aveva sostenuto che scegliere una professione equivale ad esprimere se stessi e Marco faceva l’agente di commercio, si occupava della vendita di aspirapolvere e li vendeva allo stesso modo in cui sapeva vendersi.

– “Non riesci a prendere sonno?”, le chiese sentendola entrare nella stanza.

– “Ho troppi pensieri”.

– ”Che genere di pensieri?”, lui domandò non mostrandosi per nulla preoccupato.

Ecco era pronta, glielo avrebbe detto. Per giorni interi si era chiesta come avrebbe reagito e quale sarebbe stata la sua scelta se lui avesse espresso un rifiuto. Sarebbe fuggita da ogni responsabilità? Si sarebbe affidata al suo volere o avrebbe avuto la forza di ribellarsi? Non restava che sapere.

– “Aspettiamo un bambino!”, usò il plurale per rendere l’effetto di quella frase meno devastante ma non servì perché lui balzò giù dal divano come una belva e, prendendola per le spalle, con forza urlò:

– “Ripeti quello che hai detto e molto lentamente!”

Chiuse gli occhi, impedendosi di tremare.

– “Hai capito. Non lo voglio ripetere!”, ormai Carla non sentiva più le sue mani da tempo, l’unico modo che lui aveva per toccarla era farle male e spesso riusciva in questo anche solo parlandole.

Aveva reso estraneo il suo corpo persino a se stessa ed ora era solo la presenza della creatura che portava dentro a farle nuovamente sentire che quel corpo le apparteneva.

– “E’ tua la colpa! Sapevi bene che io non desideravo averne. Com’è successo?”.

– “Sei abbastanza cresciuto da sapere come vanno le cose, no?”.

Non usavano alcun tipo di precauzione, lui era contrario a tutte e riteneva che l’uso di un anticoncezionale poteva dare alla donna una libertà di scelta che lei non meritava e che sarebbe stata incapace di gestire.

– “Bene, è del tutto risolvibile! Abortirai! Domani andrai dal medico non appena sveglia!”, lo disse con un tono così gelido che un brivido le percorse la schiena facendola fremere.

– “Risolvibile?” – urlò in preda al panico – “qui non si tratta di algebra, Marco! E non puoi liquidare tuo figlio con lo stesso fastidio con cui scacci un moscerino! Che razza di uomo sei?”.

– “Quello che ti sei sposata e ti piaccia o no decido io in questa casa! Tu non hai nemmeno la forza di reggerti in piedi da sola. Se non fosse per i soldi che porto io, come pensi che vivremo? Perciò ogni tuo singolo respiro mi appartiene, compresa questa decisione! Ora sono stanco, me ne vado a dormire e non intendo tornare su questa discussione. Sai cosa devi fare!”.

Le venne in mente suo padre e quel modo autoritario e prepotente con cui per anni lui aveva usato le stesse parole. Lei non aveva mai osato ribellarsi, prendere un’iniziativa o fare una scelta che l’avrebbe consolidata come essere indipendente e non più succube. Non aveva mai sentito quella forza che invidiava a molte altre donne, distanti dalla sua vita e forse per tale motivo così differenti, non aveva riconosciuto quel coraggio nemmeno in sua madre, cosi simile a lei nella sua disperata solitudine.

Si avvicinò al tavolino e spense la candela. Voleva distendersi nel buio di quella notte invernale nell’assurdo tentativo di dare un senso alla sua esistenza, di recuperare i pezzi di quel vivere che si stavano sempre più sgretolando tra le sue mani. Quel percepirsi impotente le era insopportabile, sentiva di possedere gli strumenti per uscirne ma era come amare la musica, avere una chitarra e non saperla suonare.

Si chiese come avrebbe potuto togliere la vita a quel bambino. Avrebbe sopportato di andare contro tutti i suoi principi solo per la cieca obbedienza verso un marito che sentiva da tempo di non amare più?

Chiuse gli occhi, posandosi una mano sul ventre e in un sussurro disse ciò che le aveva fatto paura anche solo pensare:

– “Non hai colpa, piccolo! Sei arrivato nel corpo della donna sbagliata!”.

L’operazione, avvenuta la settimana seguente quella notte, fu più dolorosa di quanto si era immaginata e devastanti furono le conseguenze che lacerarono non solo il suo corpo ma anche la sua psiche. A causa di alcune complicazioni le fu fatto un raschiamento togliendole, cosi, la possibilità di future gravidanze e da quel momento l’atteggiamento di suo marito divenne ancora più sprezzante.

L’avere legittimato, con l’atto di abortire, la decisione che lui le aveva imposto lo avevano reso ancor più oppressivo e Carla sentiva che nessuno l’avrebbe mai liberata dal senso di colpa. In fondo quel giorno si era resa simile a lui perché la sterilità organica, che era stata il tragico lascito di quell’orrenda esperienza, andava di pari passo con l’arido animo di suo marito.

La donna che uscì da quell’ospedale era la copia fittizia di se stessa, dilaniata dalla trasgressione morale e dalla contraddizione che le rendeva inaccettabile il ricordo; decise così di rimuovere ogni particolare di quell’esperienza.

Fu da allora che cominciò a vagare di notte, in preda al turbamento e ad uno stato di coscienza alterata, alla ricerca di un qualcosa che aveva la sensazione di aver perduto o le era stato portato via. Con aria smarrita, Carla apriva la serratura della porta di casa, scendeva le scale del suo condominio e si tuffava nelle strade deserte, sapendo di dover cercare ma ignorando cosa e perché.

In quello stato aveva trascorso molte notti di quegli ultimi anni, non serbando alcuna memoria di ciò che faceva o delle persone che incontrava e molto spesso si era sentita osservata in modo strano, durante i suoi intervalli di spesa nel supermercato sotto casa, o mentre se ne stava appollaiata sulla panchina dei giardinetti.

Giunse d’improvviso ad itinerari che non ricordava assolutamente di aver mai percorso e a compiere azioni che sentiva di non appartenerle. Ogni giorno trascorreva nel grigiore di un quotidiano che voleva rigettare e sentiva crescere dentro di sé l’urgenza di dare ascolto ad un’altra voce, estranea nel suono e terrificante per il senso di ciò che le suggeriva.

E in una gelida alba invernale quel mormorio cantilenante ed oppressivo prese con forza spazio nel vuoto della sua anima e la stuprò.

La porta della camera da letto era socchiusa, Carla entrò di soppiatto come faceva ogni mattina, ma per la prima volta l’uomo che vide accovacciato sul suo letto matrimoniale le parve un sordido intruso. Era suo marito.

In nessuna delle sue notti trascorse fuori di casa l’aveva visto arrivare a cercarla, magari arruffato, stralunato e malvestito, come qualcuno colto nel profondo del suo sonno e costretto a correr via, a rituffarsi con violenza entro la vita vigile. Lui non si accorse mai delle sue assenze e di sicuro non gliene sarebbe importato poi molto; ma quel mattino fece un salto nel letto e gridò:

– “Oh Carla ma che fai!”.

Lei se ne stava lì, sulla soglia della porta, con gli occhi sbarrati in un’espressione ottusa a sussurrare una vecchia ninna nanna, guardando giù.

Marco si spaventò, ascoltava un rumore nuovo ed in esso non riconosceva il timbro di voce di sua moglie, ma seguì la direzione del suo sguardo.

Vide che stringeva in una morsa, come per il terrore di perdere dalle mani quella preda preziosa, un bambolotto di gomma la cui espressione lo agghiacciò. Aveva occhi sbarrati di un azzurro vitreo, inespressivi e sulla piccola bocca un ghigno orrido, Carla lo cullava in una nenia dolce, sommessa e struggente.

In un secondo i loro sguardi si incrociarono e lei con tono cantilenante disse:

– “Non lo hai sentito piangere! Sei indifferente a tutto, persino a lui!”.

La vide dirigersi verso la finestra chiusa del balcone. Si sentiva paralizzato, la realtà da cui era fuggito per anni, e che sua moglie aveva così stravolto nell’inconscio, gli si presentò innanzi, greve come un macigno. Gli premeva sul cuore, non respirava più.

Si posò le mani sulle orecchie, pensò alla vendita del giorno dopo, a come avrebbe dovuto presentarsi a quel nuovo cliente, e voltò il capo. Non la vide, non voleva vedere, ad occhi chiusi si avvicinò alla finestra e la chiuse; poco prima una donna  stretta ad un bambolotto aveva toccato l’asfalto freddo sotto di sé.

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