Ogni materia ha la sua vocazione formale, ogni forma ha la sua vocazione materiale, già abbozzata nella vita interiore.
(Henri Focillon, Vita delle forme)
di Paolo Marzano
Condividere l’arte con il tempo e la storia, riconoscendone la sua umana antica espressione, pone non poche difficoltà. Gli strumenti per tentare l’impresa si trovano nella individuale predisposizione dell’approccio all’arte, dosando, e così ‘tarando’, la propria sensibilità, alle componenti alchemiche di quella “docta ignorantia” e “festina lente” (secondo la regola estetica rinascimentale del gioco figurato tra opposti che riusciva ad educare filosoficamente alla “coincidentia oppositorum”). Noi, infatti, ci sposteremo nel campo dell’arte cogliendo la grande scala compositiva fino alle piccole incisioni. Ma iniziamo dunque ad entrare nel ragionamento rinascimentale per poter comprendere meglio i suoi molteplici aspetti.
Se ci trovassimo ad osservare il soffitto della Villa Farnesina, scorgeremmo la festante gioiosa scena olimpica in onore del matrimonio tra Amore e Psiche affrescata da Raffaello. Capiremmo subito la continuità con la stanza attigua che illustra ancora delle divinità pagane e astrali, completate dall’ordine delle stelle fisse e dei pianeti di riferimento. Sono riportate precisamente le costellazioni fino ad allora conosciute. L’incredibile e affascinante opera venne commissionata da Agostino Chigi al Peruzzi. Un’ambientazione forse guidata dall’enfasi espressiva e dall’evidente, altissimo livello artistico, raggiunto da quei famosi pittori. Accompagnata ‘anche’ dall’esaltazione di quelle figure mitologiche appartenenti al mondo antico. In effetti, ‘quelle’ costellazioni descrivono una ben determinata e precisa posizione astrale. Sono state volontariamente dipinte secondo il momento della nascita proprio del Chigi.
Spostiamoci nel tempo un po’ più indietro, nell’ambito ferrarese, in particolare nella corte estense; siamo dunque a Ferrara. Qui, fin dal 1422 esistevano delle carte da gioco, forse prodotte da uno dei miniatori della Bibbia di Borso d’Este e che avendo assorbito la lezione grafica, anche di Francesco del Cossa completò la vasta minuziosa commissione di qualche sconosciuto colto umanista, erano nati “I Tarocchi del Mantegna”.
Questi Tarocchi nulla rappresentavano di volgare e quindi di censurabile. Anzi si raccontava che sarebbero stati creati, nell’ ambito del concilio mantovano (1459 – 1460) e importanti personaggi (Pio II o Enea Silvio Piccolomini, il cardinal Bessarione e Niccolò Cusano) ne facevano l’uso sia mistico sia ‘edificante’ durante il riposo dai lavori conciliari. Infatti doveva presumibilmente essere un gioco basato sul ‘coordinamento dei livelli’ o delle ‘case’ secondo delle regole date (del tipo più complesso di ‘scale’ a ‘semi’ di cui l’ordine ‘gerarchico’ è obbligata per la chiusura del gioco) .
La disposizione delle lettere e dei numeri, riportava esattamente l’ordine che la teologia assegna all’universo. Distribuiti in giusta successione, essi formano infatti una scala simbolica, che sale dalla terra al cielo. Letta invece dal basso verso l’alto, la scala insegna che l‘uomo può elevarsi gradualmente nell’ordine spirituale inerpicandosi lungo le cime del bonum, del verum e del nobile, e che la scienza e la virtù lo avvicinano a Dio”. Interessante l’articolo di Marco Bertozzi, ora online.
Occorreva questa premessa per comprendere che dal 1520, in una fase di libera ricerca pittorica e di esaltante creatività artistica, l’Antico, fecondo e capiente ‘contenitore’, diffondeva una vasta molteplicità di argomenti e di idee, tutte da nobilitare, attraverso una colta attitudine al confronto con il tempo e al comportamento dell’uomo nel mondo; sia chiamava infatti, Umanesimo.
Continuiamo, dunque, il nostro viaggio ‘attraverso’ la riflessione sulla ricca e densa opera scultorea del Mausoleo dei Duchi Acquaviva, di Nardò. Ci avviciniamo sempre più a considerare le opere d’arte, siano esse incisioni, miniature, dipinti, sculture o architetture, come il fermo-immagine di “un tempo” storico che contiene e preserva i suoi codici, i suoi significati, le forme, i segni, i materiali con tutto il loro originale modo d’uso e il potenziale espressivo, come prova concreta, di quella particolare cultura. Tornando alla nostra ‘macchina’ sepolcrale continuiamo a farci ancora raccontare le ‘voci’ di quel periodo.
Nel suo insieme, l’appartenenza del potente ‘apparato’ scultoreo, rimane, secondo gli studi più aggiornati, di riferimento, per il periodo della storia dell’arte e dell’architettura pugliese che muove dal Rinascimento e si spinge verso il Barocco. Più importante ritengo occorra non sorvolare sul continuo necessario confronto con gli stessi linguaggi usati, proprio nello stesso periodo, da tutt’altra parte d’Italia e d’Europa, in quei luoghi e sulle terre ‘culturalmente condivise’ dalle dominazioni delle grandi famiglie.
Per quale motivo occorre ampliare tanto il discorso? Conosciamo bene l’importanza della potente famiglia Acquaviva. A conferma di questo, dalle cronache leggiamo, per esempio, come durante l’incoronazione di Carlo V a Bologna (1530), l’imperatore invitò il duca di Nardò, Gian Bernardino, a coprirsi il capo. Il segno era riconosciuto come l’appartenenza della casata tra le Grandi di Spagna. Già i d’Aragona (Ferdinando I) ‘adottarono’, con l’aggiunta del loro nome, agli Acquaviva (1479), quella casata nella dinastia regnante. Conosciamo anche gli Acquaviva, nei loro diversi rami nel meridione d’Italia, molto vicini alla Serenissima repubblica veneziana, a conferma del forte rapporto fiduciario e la solida “affezione”, compreso l’impegno in difesa della fede nelle Fiandre (appunto), fornendo, alla bisogna, numerosi uomini d’armi. Conosciamo ancora quanto la Spagna ‘vivesse’ di contatti con queste nobili famiglie, e quanta evidenza, poi, queste famiglie, cercavano di dimostrare al proprio signore di riferimento, chiedendo in cambio l’avanzamento sociale, privilegi, grandi possibilità di manovra nell’amministrazione dei territori e delle ricchezze. Insomma un riconoscimento che li differenziasse, per fedeltà e fiducia al re, in campo europeo e nelle corti.
Cercherò di dare un mio modesto perfettibile e sicuramente incompleto contributo, con il chiaro obiettivo di ampliare la visione d’insieme su quei monumenti che rappresentano la reale prova del livello sociale, cavalleresco, militare, religioso, umanistico raggiunto dalla famiglia in questione. L’evidente distrazione può nascere quando, tali opere, si interpretano come episodi artistici, magari ‘isolati’ (di cui forse, pur limitatamente, oltre l’elencazione degli elementi della composizione, la probabile committenza e la paternità di realizzazione, poi, non si aggiunge nulla sulle infinite relazioni che questi elementi, stabiliscono e tutt’ora sostengono, con la loro origine derivazione e campo d’azione). Arriviamo, infatti ad un punto importante della questione descrittiva dell’opera. L’arte, in realtà, viaggia su canali conoscitivi diversi dai documenti come gli atti notarili, le visite pastorali e gli archivi privati o diocesani. La polvere dell’indifferenza che si posa, su queste opere, possiede infatti, diversi valori e pesi specifici.
Riconoscibili come eccezionali ‘oggetti primi’, per questa zona, proprio per la loro evidente forza ‘centripeta’, hanno saputo nel loro ‘isolamento’, tenere unite le regole di tutta quella cultura esistente in questo territorio (influenze derivate da trattati teorici, fonti letterarie, filosofiche, artistiche unite indissolubilmente ai talenti artigianali, locali e non) alimentato continuamente dalla volontà delle famiglie dominanti, di persuadere i loro re con la qualità nella conduzione del regno, nel contesto di una vita di corte aggiornata ai modi di espressione artistici del tempo. Anche a costo di dimostrare, subito dopo, l’uso della forza bruta per il controllo nei loro feudi. Evidenziando così, il rigore e l’intransigenza specialmente quando, si rischiava la caduta di ‘tono’, nella gestione del patrimonio reale.
Qui, cercherò in nuce, di riflettere sulle caratteristiche del ‘materiale’ culturale necessario per la simbologia del Mausoleo e quindi del ‘suo’ tempo. A questo proposito la storia dell’architettura e della scultura pugliese sottolineano come i volti e gli arti inferiori dei personaggi del Mausoleo, delle Virtù e dei due Duchi, risultino davvero ‘ancora’ troppo semplificati e sinteticamente modellati con “teste quasi sferiche e le braccia nude di forma tendenzialmente cilindrica”. Per cui, questa caratteristica è stata evidentemente letta come una componente stilistica di derivazione ‘tardo-ellenica’ dall’Arnoldi (Scultura del Rinascimento in Puglia). Incontrovertibile deduzione derivata dalla posizione strategica della Puglia ed in particolare del Salento, a cui vanno aggiunti, però, i lineamenti di alcune figure ‘migranti’ riadattate e approdate dal ‘mare nostrum’, non solo, dalla direzione citata dallo studioso. E se il drappeggio esalta i contrasti ed evidenzia un generico schematismo che riporta alla ‘statua colonna’ come può suggerire Grabar (L’età d’oro di Giustiniano), in questo caso si viene a determinare quella caratteristica del Rinascimento pugliese, con un evidente bisogno di effetti chiaroscurali che in questa terra, per lo più pittoricamente, sono mancati (aggiungo io). In compenso, il ritardo temporale, viene colmato dall’arrivo di trattati teorici con ‘figure’, reinterpretate e da modelli ‘ellenizzanti-riconvertiti’ moralizzati. L’arte salentina dunque scandagliava e selezionava sapientemente tesori, opportunamente da riplasmare e pregevolmente ‘pietrificare’.
Nell’osservare il volto dei duchi ci si accorge dell’attenzione ai lineamenti e ai particolari; la barba, i capelli, le labbra, gli occhi, le palpebre, gli zigomi. La composizione insomma risulta completa nelle sue parti e anche ben proporzionata, anche i lineamenti delle Virtù obbediscono a canoni formalmente schematici che potrebbero tradursi in un ricercato formalismo inespressivo e atonale. Altro, ipotizzo, è il motivo per cui quella scultura diventa particolare e colpisce nella sua ‘semplicistica essenzialità’. Lo abbiamo anticipato all’inizio della riflessione (ma occorreva farlo). L’intero ‘corpo’ scultoreo è stato creato e organizzato, ritengo, come se fosse un grande, maturo, condensato di temi, modelli e simbologie in uso nel periodo, ma curato (qui è l’eccezionalità) virtuosamente come un dipinto (d’impianto fiammingo!?). Quindi, osservandolo in generale, ritengo non marginale l’ipotesi per cui, quei volti che la luce colpisce, non descrivono volumi tridimensionali, ma sono ‘trattati’ come se dovessimo percepirne l’ “incarnato” (termine in uso nei dipinti), proprio come nelle pitture.
In generale è possibile anche ipotizzare, una variante interpretativa, come ritengo, in questa mia ricerca, di ‘ritorno dal nord’, magari ri-adattata, ma già diffusissima, riferita ad immagini, miniature, trattati o incisioni mitologiche o allegoriche. A conferma dei contatti commerciali, ma anche a livello filosofico, letterario, artistico, artigianale, la decorazione di quello che sembrerebbe un probabile drappo posto sul fondo, dietro i Duchi, ricorda le composizioni floreali di alcune ‘notevoli’ e allora (1545) già conosciute, pitture fiamminghe.
Tentiamo una verifica pratica: togliamo i duchi dall’immagine, ed esaltiamo il fondo, per riflettere sulla grafica floreale adottata. Il disegno ha caratteristiche a grandi fiori formati da diverse serie di strutture a piccoli lobi, con l’alternanza di un fitto sintetizzato quadrettato di riempimento, proprio nella forma centrale che dovrebbe rappresentare una ‘melagrana’ (una delle più evidenti è quella sul bellissimo abito del ritratto di Eleonora di Toledo, del Bronzino 1545). Dunque le stoffe preziose, gli originali ampi vestiti, i broccati ‘allestiti’ con i diversi paramenti, la ricca lussuosa acconciatura spagnoleggiante con i numerosi gioielli in evidenza, i volti e l’incarnato “scolpito-dipinto”, corrispondono alla vita e al contesto dei Duchi. Gli esempi che generarono questa nuova concezione di trasmissione culturale partono da modelli importanti. Occorre osservare le pitture dei broccati, dei velluti verdi, rossi, blu con decorazioni in oro e bordi di pelliccia nel lavoro di Hans Memling “Madonna con il Bambino e due angeli” (1480, Firenze, Galleria degli Uffizi) oppure Micael Pacher nella “Pala dei padri della Chiesa” (1480 Monaco, Alte Piankothek) o di quelle in figura.
Gli spallacci ‘leonini’ evidenti, traducono un messaggio diretto e chiaro, con le frange che simulano i denti delle fiere, nelle armature dei duchi, appaiono spesso nelle immagini e nelle incisioni che rappresentano dèi antichi e simboli di guerra. Minerva Ercole e Marte in alcune immagini indossano proprio un’armatura di questo genere, a conferma dell’importanza degli uomini d’arme di quella nobile e antica casata. Alcuni esempi nelle raccolte delle divinità antiche nelle “Imagini delli Dei de gl’Antichi” 1556 di Vincenzo Cartari.
Sono da notare le fitte piccole decorazioni a sinusoide verticale attorno al riquadro centrale, simili a quelle che troviamo, però in orizzontale, nell’ “Annunciazione” di Francesco dal Cossa del 1470.
Ancora un elemento non secondario, anzi a questa scala diventa preponderante se non invadente, ma adeguato al messaggio che vuole dare. La coppia di grifi la cui posizione enigmatica, di primo e secondo piano, distanziati, perché venga creata una forte zona d’ombra fra essi, è possibile che siano stati riferiti a quelli che di solito tirano un carro o un mezzo durante i trionfi di qualche evento o racconto allegorico (dipinto). Quello ricercato e scelto è l’esempio dei grifi del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia del Mese di agosto (coincidenza o volere della committente Giovanna Gaetani, con il mese della morte in battaglia per un’incursione turca di Giovan Bernardino – 25 agosto 1541). I grifi di Ferrara tirano il carro di Cerere, il nome romano della dea Demetra. Dispensatrice di grano e dell’agricoltura, artefice del ciclo delle stagioni, protettrice dei matrimoni e delle leggi sacre. Prove della sua esistenza risalgono al VII sec. a.C. quindi l’antica dea dei tempi arcaici e dei riti Eleusini nasce molto prima dei dodici dei dell’Olimpo.
Tra putti, medaglioni, linee di astragali, panoplie, girali di tralci di vite, cavalli alati e fogliame vario, ecco spuntare anche Lachesis e Atropos. Il putto alato poggiato col gomito su un teschio. Simbolo antico della caducità della vita nel suo ciclo eterno.
Con il drappo decorato con una grafica afferente al broccato sul fondo, le sagome di Duchi in secondo piano, la tridimensionalità del tralcio si espone in primo piano, con la sua carica importante carica visiva, se interpretata esattamente come una soluzione pittorica fortemente chiaroscurale ha cui ci ha abituato, nei suoi lavori, l’orafo praticante del bulino e dell’acquaforte che scelse di fare il pittore. Terzogenito di 18 fratelli, Albrecht Durer (1471 – 1528), dal padre orafo e dal fratello ereditò l’artigianalità dell’uso dei metalli, secondo i grandi maestri del tempo come van Eyck e van der Weyden (confronto in figura, del talento sommato alla buona pratica artigianale) aggiungendosi, egli stesso, alle figure giganti della pittura fiamminga.Il sarcofago sostenuto dai Duchi presenta invece la particolarità del tralci di vite in rilievo. Un rilievo che ha dei riferimenti proprio dello stesso periodo per cui abbiamo notato diverse assonanze.
Aggiorniamo quindi la nostra immagine riferita alla colonna inglobata leccese con l’enigmatico panneggio in uso da alcuni pittori. All’immagine sommiamo il dipinto di “S. Chiara” 1468-69 di Madrid museo thissen Bornemiszaal al Trionfo di Minerva del mese di Marzo di Schifanoia 1470 o ancora dell’angelo a sinistra della “Madonna con il Bambino in trono tra due angeli” 1471 circa a Bologna Santa Maria del Baraccano, ancora le ellissi di pieghe sovrapposte.
Accanto al fastoso apparato decorativo, abbiamo dunque indagato con l’obiettivo di comprendere quei ricercati particolari che esaltano l’espressione della materia con cui è stato realizzato e il talento creativo dell’artista o del gruppo di artisti del Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona di Nardò. Infatti, non certo marginali ritengo siano i diversi particolari degli agganci dei festoni, delle ghirlande e delle varie decorazioni. Quindi nodi e legacci scolpiti che ricordano il denso inanellarsi scultoreo del Riccardi sullo strato mirabilmente ‘icrostato’ del drammatico racconto sulle colonne dell’antico ciborio della cripta di Otranto. Di sicuro interesse sarebbe un reale confronto.
In questo modo ritengo che si possa comprendere la bellezza di queste terre d’approdo; tra flussi di popolazioni e rotte navali, sentieri di pellegrini e percorsi di guerrieri, si possono immaginare dunque come tesori tardo-ellenici e greco-bizantini, viaggiavano spostandosi anche molto più a nord di quello che si può immaginare, per poi ridiscendere trasformati, sulle vie d’acqua e seguendo le strade commerciali. Le coste che recepivano queste mutazioni erano appunto le terre strategicamente collegate ai flussi principali. I confronti effettuati mostrano la loro complessità. Che sia il “colosso di Barletta” o i ‘Tarocchi del Mantegna’, essi costituiscono vettori capaci di influenzare l’immaginario figurativo dei diversi paesi, ben oltre la nostra penisola, stabilendo che la ricchezza dei territori legati alla ‘voci’ dell’arte, si trova nella bellezza del loro stratificato destino ‘migrante’.
[N.d.R.: Le foto del Mausoleo dei duchi Acquaviva d’Aragona di Nardò sono di Fausto Laneve, (per gentile concessione di don Fernando Calignano).]
Per rileggere la prima parte dell’articolo, clicca qui: Intorno al Mausoleo dei Duchi Acquaviva di Nardò (Parte I).