Saggio, Storia

Il brigante Ciro Annicchiarico, detto il “Papa”, nel territorio di Martina Franca

di Michele Lenti

Tipica iconografia ottocentesca del bandito

Uno degli aspetti più complessi ed affascinanti della storia salentina è, sicuramente, il brigantaggio, la cui fenomenologia variò nel corso dei secoli, dando vita a pure forme di banditismo, o a movimenti di lotta, più o meno ispirati da motivazioni politiche ed ideologiche. Ciro Annicchiarico fu un esponente di spicco del contropotere nel Sud Italia, archetipo di fuoriuscito e capo di una corrente che al suo interno contemplava eversione e strategia del terrore; aspetti, questi, attribuiti al suo operato, che molto colpirono l’immaginario collettivo, e che offrirono il destro, sia a storici che a scrittori, per una interpretazione della sua vita in chiave politico-sociale, ma anche picaresca e un po’ romantica.

Figlio della temperie culturale giacobina che imperversava nelle province del Regno,
e in particolar modo nel Salento, Ciro Annicchiarico nacque a Grottaglie, da Vincenzo e da Ipazia d’Alò, il 16 dicembre 1775. A venticinque anni divenne sacerdote e maestro di canto gregoriano. Ma nel 1803, accusato dell’assassinio di Giuseppe Motolose, antagonista in amore per una certa Antonia Zaccaria, fu arrestato e condotto a Lecce, e da quel tribunale condannato a quindici anni di esilio, da scontare in prigionia. La quale, però, riuscì ad evitare fuggendo e tornando nella sua città natale.

Convinto massone e giacobino, atteggiandosi a sostenitore del nuovo regime dei re francesi, di Giuseppe Bonaparte prima (1806 – 1808), e di Gioacchino Murat dopo (1808 – 1815), riuscì a spadroneggiare, assieme ai cinque fratelli, nella Guardia civica del Comune di Grottaglie. Nel 1808 il padre del Motolese ottenne dalle autorità che si ordinasse di nuovo il suo arresto; detenuto nel carcere di Lecce, riuscì nuovamente ad evadere. Datosi, pertanto, alla macchia, fondò, nel 1813, con il fratello Salvatore, una banda di ventiquattro persone, giurando lo sterminio dei persecutori. Il 16 agosto 1814 il governo di Murat lo dichiarò bandito, ma nessuno osò toccarlo.

Con la restaurazione borbonica del 1815 l’Annichiarico cercò, invano, di essere amnistiato; divenne, allora masnadiero politico, alleato della carboneria. Si iscrisse, pertanto, alla setta dei “Decisi”, ala estrema costituitasi nella dieta straordinaria dei liberali salentini a Lecce nel 1816, divenendone, in seguito, il capo e dandole un programma politico-sociale ed un’organizzazione di tipo militare. La banda, le cui logge erano dette “Decisioni”, era padrona assoluta del Nord-Est tarantino e delle Murge, e non ammetteva atteggiamenti neutrali. All’interno di siffatto sodalizio non mancava un sistema di entrate costituto, oltre che dalle tasse per le patenti di appartenenza, anche dalle contribuzioni imposte; le esecuzioni, poi, erano eseguite con macabra solennità.

Dal 1816, infatti, la setta si diede a vendette crudelissime e a delitti orrendi, mentre aumentava la potenza del prete-brigante, che godeva di appoggi nelle classi più diverse. Nella sua orbita d’influenza ora entra anche Martina, evento, questo, favorito dallo stato di stagnazione economico-sociale divenuto più fosco all’indomani della Restaurazione Borbonica. «Martina Franca, la prima città in Terra d’Otranto…godeva cattiva reputazione, come uno dei principali covi dei briganti che formavano la compagnia del rinomato capo Ciro Annichiarico» . Sulla città, infatti, pesavano disoccupazione e miseria, oltre ad un degrado culturale e sociale che vedeva ignorare persino le più elementari norme di igiene pubblica. «Tutti i larghi erano ingombri d’immondizie – come ricorda, nei suoi scritti, il generale Michele Santoro – tutti gli escrementi si accumulavano in questi luoghi durante la notte, le strade non selciate, porci che scorrevano il paese, l’aria putrida e fetente, produttrice di molte malattie, e precisamente dell’antrace, e febbri di mutazioni opprimevano questi abitanti, e non poche vittime scendevano nel sepolcro, e molto più che il paese era ingombro di cloache e di muraglie e non dava accesso alla libera circolazione dell’aria» .

Terreno fertile, dunque, per il banditismo e per le manovre politico – militari dell’Annichiarico, il quale poteva contare sull’appoggio del galantuomo Martino Recupero, e sul ricovero che offriva la folta boscaglia che allora circondava Martina, in special modo le Pianelle ed i Monti del Duca . Ciononostante, nel 1817, cercò di venire a patti col governo, al quale promise di sterminare le bande di Oria e del bosco dell’Arneo in cambio del perdono. Ma, proprio per l’opposizione di Ferdinando I, re delle Due Sicilie, il 22 settembre di quello stesso anno fu nuovamente bandito, mentre, qualche mese dopo, fu deciso l’invio, in Salento, di truppe al comando del generale Riccardo Church , col proposito di spezzare ogni velleità liberale e distruggere la setta dei «Decisi». È il libro Brigantaggio e società segrete nelle Puglie (1817 – 1828) a dare un quadro, seppure di parte, della situazione cui venne incontro l’ufficiale inglese nella sua marcia verso il Salento: «Il brigantaggio era all’ordine del giorno su tutte le strade maestre e a tutti i passi. Bande armate di assassini spargevano il terrore dovunque, ma più specialmente nelle province pugliesi, le quali ne rigurgitavano in modo tale che i viaggiatori non osavano avventurarsi su certe strade; il commercio si era arrestato ed i campi rimanevano incolti» .

A Martina Franca il generale «si attendeva d’incontrare segni d’ostilità, forse d’opposizione» . «Marciai con tutte le mie forze ancora compatte ed intere – scrive Church al generale Nugent il 24 dicembre 1817 – per potere, in caso che le cose andassero male, stabilire l’ordine e proteggere Taranto, nel castello del quale avevo posto una compagnia di Greci, e a fine di cominciare le mie operazioni nella provincia di Lecce, in una delle città principali di essa» . «Martina – continua a scrivere il generale – è una piccola città di 15.000 abitanti, posta sulla sommità di una collina, circa 50 miglia lungi da Lecce e 18 da Taranto» .

In realtà, con i suoi 15.000 abitanti, era uno dei centri più popolosi non solo della Puglia, ma di tutto il Meridione. Essa, infatti, teneva testa a Bari che contava appena 20.000 anime, a Cerignola che ne aveva 16.000, e alla vicina Taranto, dove si stimava vivessero 18.000 persone, mentre superava Lecce e Trani, che avevano 14.000 abitanti ciascuna, e Brindisi che, con i suoi 5.000 abitanti, era poco più che un paese. In Terra d’Otranto era, dunque, la città maggiore . Perplessità deve avere sicuramente suscitato, invece, il comitato d’accoglienza all’ingresso delle truppe nell’antico borgo. Accanto al «vescovo, figura maestosa…seguito dal clero, dal sindaco e dai primari cittadini..accalcati intorno e dietro di loro» , vi erano «quanti degli abitanti avevano potuto trovare una scusa per uscire all’aperto, uomini e donne, madri con lattanti in collo, barcollanti fanciulletti dagli occhi neri aggrappati alle sottane, vecchi con bastoni in mano, giovinastri dall’aspetto selvaggio, alcuni che seguivano il corteo, altri fermi in crocchio, fuori delle porte, guardando con avida curiosità» .

Nonostante questo primo impatto e la fama che precedeva la città, il generale ebbe modo di scrivere in una delle sue lettere: «Siamo stati ricevuti con cordialità, non un lamento è stato profferito contro un soldato delle mie truppe, ed io faccio sempre venire avanti il sindaco a consegnarmi in iscritto le lamentazioni, se ve ne sono» .

La visita di Church non mancò di sortire effetti immediati sulle condizioni in cui versava Martina. Infatti, per far fronte alla pesante carenza igienica, «subito – come scrive il generale Michele Santoro – furono dati ordini severissimi, non solamente al comune, ma a tutti gli abitanti di sfrattare di tutte quelle macerie le strade nonché dei porci ambulanti che infettavano il paese. Pene severissime furono pronunciate contro i trasgressori. In tutte le ore, sì di notte che di giorno diverse pattuglie perlustravano il paese, e guai a quella famiglia che si avesse permesso di gittare un bicchiere d’acqua dal balcone, ed in pochi giorni il paese divenne una città, che si poteva scorrere a piedi scalzi senza pericolo di macchiarsi» .

A Martina il generale ebbe modo di conoscere quella parte della borghesia ricca ed influente, presso la sontuosa residenza cittadina di Martino Recupero, che era, però, allo stesso tempo, il quartier generale proprio del brigante Ciro Annichiarico. Ciononostante, il vecchio galantuomo martinese mostrò affabilità e cortesia nei confronti del militare inglese, al punto che quest’ultimo, a distanza di non pochi anni, ricordava con piacere e nostalgia quel breve soggiorno martinese. Almeno tali devono essere state le impressioni, raccolte in seguito dal nipote canonico del Church: «Immaginatevi le vaste sale della casa di Don Martino Recupero tutte illuminate in onore dell’ospite illustre; le tavole ella sala da pranzo cariche di vini e cibi di ogni genere; il salone da ballo affollato di buoni cittadini con le mogli e le figlie; la luce di innumerevoli candele che illuminavano le pareti; i visi gai e le allegre uniformi degli ospiti militari; e tutta la compagni ansiosa di vedere l’inglese che si aggirava svelto, leggero, con l’occhio acuto, divertendosi di tutto, della musica, della conversazione (egli era un eccellente cultore della lingua italiana) e, sebbene non ballasse, incoraggiava i suoi ufficiali a prendere parte a quel divertimento e osservava le belle danzatrici con ammirazione. «Martina è famosa» dice egli, «per la bellezza delle donne». E aggiunge: «Mi divertivo di tutto cuore e specialmente nella conversazione dell’interessantissima duchessa e della graziosa giovanetta sua figlia» . Questa amena parentesi presso casa Recupero sembra, per il momento, distogliere il generale dalla sua missione. «Chi lo crederebbe?» scrisse infatti il Santoro nel suo manoscritto parlando della sosta del Church a Martina: «mentre lì dimorava il generale – continua il manoscritto – don Ciro, ferito in un attacco precedente co’ rivali di Grottaglie, si curava nella stessa casa, al piano superiore. Il Recupero, mentre onorava in tutt’i modi l’ospite, voleva mantenere l’amicizia di don Ciro, anche perché utile ai suoi disegni.

Una sera in conversazione col generale era il sign. Raffaele Conserva, e parlando di Ciro si lasciò sfuggire “voi l’avete su la testa”, ma il generale non capì a che volesse alludere, e la cosa passò inosservata» . In realtà il Church seppe farsi valido interprete delle direttive imposte dal governo borbonico, riuscendo abilmente a separare i Carbonari, che comunque aspiravano alla costituzione di una Repubblica Salentina, che fosse distaccata dal potere centrale, dall’Annichiarico, che cavalcò tale idea, ma per il proprio tornaconto e facendo uso di mezzi violenti.

Tra i liberali che, al momento opportuno, decisero di passare dalla parte del Governo, memori, probabilmente, delle tristi sorti a cui andarono incontro i fautori della Repubblica Partenopea del 1799, vi era una vecchia conoscenza del Church: don Martino Recupero. «Certo sono stato in qualche modo un protettore di Annichiarico – pare avesse detto il vecchio galantuomo, avvertendo che le cose nell’aria, ormai, stavano cambiando – ma che cosa fare? Il Governo non fa nulla per proteggerci, e se uno non si mostra amico di don Ciro, non può osare di uscir fuori e non si è nemmeno salvi nella propria casa, né si è più padroni delle proprie terre, nemmeno dei servi; ma quanto ad essere un amico di don Ciro, signor generale, la verità è che egli non ha nemico più acerrimo di me! Vostra Eccellenza ha avuto fiducia in me, ha rifiutato di ascoltare le calunnie a mio carico, ed io son vostro! Comandatemi e disponete di tutto quanto possiedo» . Il racconto, fantasioso come gran parte del libro, ma sconcertante per l’analisi che fa di alcune dinamiche criminali, purtroppo ancora attuali ai giorni nostri (basti pensare, ad esempio, alle vittime del racket delle estorsioni, spesso e volentieri, per evitare tragiche conseguenze, costrette a tacere, anche a causa delle Istituzioni, spesso inefficienti sul piano della sicurezza), rivela, comunque, l’abilità diplomatica dell’inglese, unita ad un’efficace tattica militare, che fece terra bruciata intorno al prete – brigante, il quale ebbe ancora il tempo di compiere scorrerie tra le «masserie dei monti di Martina, rifugi preferiti dei briganti, i quali sapevano che il massaro era, generalmente, per timore o per simpatia, un amico su cui poter fare assegnamento» .

Non fu trattato, certo, come amico il proprietario di Masseria Piccoli, un certo Pietro Chiarelli, sequestrato ed obbligato a versare una somma che si aggirava intorno ai tremila ducati. Nonostante questo episodio, la morsa dell’esercito al comando di Church continuò a stringersi sempre più intorno a Ciro Annichiarico, scampato avventurosamente, durante il matrimonio di un brigante, all’assedio di san Marzano. Nulla può, però, presso masseria Scasserba, vicino Grottaglie, dove oppose una tenace resistenza per poi arrendersi ed essere condotto a Francavilla il 7 febbraio 1818.

piazza di Francavilla Fontana, su cui venne giustiziato l'Annicchiarico (foto Michele Lenti)
La piazza di Francavilla Fontana, su cui venne giustiziato l’Annicchiarico (foto Michele Lenti)

Lascia perplessi l’ultimo atto della vicenda terrena di questo masnadiero: senza formulare alcun interrogatorio, alcun processo, colui che «per diciotto anni» era stato «padrone assoluto della provincia, facendo impazzire molti generali francesi, italiani, svizzeri, tedeschi, napoletani» , ora, invece, «ridotto all’impotenza» , venne giustiziato la mattina dell’8 febbraio 1818, nella pubblica piazza di Francavilla. Evidentemente anche in catene destava timore, perché capace di fare rivelazioni sul mondo delle società segrete salentine le quali, ad un certo punto, gli avevano voltato le spalle, decretando la fine del suo dominio in Terra d’Otranto. Quanto al Church, fu certamente più il timore di scontrarsi con un militare che aveva assunto le funzioni di Alter Ego dello stesso Ferdinando I, che una sincera ammirazione, come vuole far credere il libro Brigantaggio e società segrete nelle Puglie (1817 – 1828) a far sì che fosse ristabilito l’ordine nella provincia meridionale pugliese. Non fu certamente colpito dalla sua figura il generale Michele Santoro, il quale, piuttosto, coglie occasione, nel suo manoscritto, per mettere in evidenza qualche pecca, quando fa riferimento al soggiorno in casa di don Martino Recupero. Né fu lusinghiero il giudizio dato da Pietro Colletta (1775 – 1831) nella sua Storia del Reame di Napoli dal 1734 al 1825: pur sottolineando come «il rigore di lui fu grande e giusto» , ingenerando «spavento a’ settari, ardimento agli onesti, animo nei magistrati» , rendendo «a quella provincia la quiete pubblica» , lo storico marca, in maniera negativa, il fatto che «l’inglese» fosse «passato agli stipendi napoletani per opere non lodevoli» . Quali fossero queste opere non lodevoli il Colletta non lo spiega, ma interessanti indizi, in tal senso, pare siano stati portati alla luce da Antonio Lucarelli in Rinascenza Salentina. Dopo aver condannato a morte l’Annicchiarico e sgominato la banda di cui era a capo, «il governo credette necessario accordare un potere illimitato a Church» . Questo, secondo lo studioso, consentì al generale di decidere chi condannare, salvando la reputazione, ma soprattutto la vita ed i beni dei capi settari nella provincia di Lecce, dietro, però, il pagamento di un compenso. Così «il marchese Granafei – scrive il Lucarelli – opulento anzi che no, nel giro di pochi mesi ha contratto circa 10.000 mila docati di debiti…il principe di Cassano ha dovuto sborsare la sua rata, che non teneva pronta e che in docati 6.000 gl’improntò il cavalier d. Stefano Maremonti di Lecce» . L’ingordigia di Church era tale per cui «costui non ha ribrezzo di far trattare le sue estorsioni per mezzo di Astuti e del capo dello Stato Maggiore tenente colonnello Smerber, che si sono resi pure ricchi. Il grandissimo timore in cui si vive in Provincia, rende difficile il sapere tutte le rapine; ma sono bastantemente note alcune, e fra l’altre: i 9000 docati che Church, per mezzo di Astuti e Smerber si ha presi dal barone Scazzari…d. Achille Preite ed altri scelerati di Francavilla rimasti impuniti..Circa 21.000 docati, che per mezzo di Astuti, Sternatia e Principe di Cassano si ha preso da colpevoli di Galatina, Maglie e luoghi vicini….

Per mezzo di Astuti…da Benedetto Rovito di Ugento Church si prese docati 3000 ed escarcerò i rivoluzionari di detto comune, Ippazio Baglivo, fratelli Caputo ed altri liquidati rei, fatti arrestare dal zelante Giudice istruttore di Gallipoli; anzi Church…ritirò il processo dalla Commissione Militare. S’ignora il quantitativo, ma si sa che Church per mezzo di Astuti e Smerber ha preso danaro per rimaner impunite le sceleragini di Martina, l’armamento de’ naturali di Laterza contro i Motolesi, ed infiniti altri eccessi» . Pesante, dunque, l’accusa, circa l’operato del Church «che – come conclude il Lucarelli – riferiva al sovrano ed al capitano Generale che il Brigantaggio era debellato e che la pace sorrideva ormai a Terra d’Otranto, aliena da ogni spirito di ribellione e tutta incline ai voleri di sua Maestà…» . Ma evidentemente, lo spirito di Ciro Annicchiarico, così come quello delle più fervide idee liberali, ancora aleggiava nella provincia di Lecce, per cui, dopo la partenza dell’inglese «qualche mese dopo esplodeva la rivoluzione del 1820 – 21, che nel Salento rinveniva una falange di acerrimi ed agguerriti propugnatori. Povero Church!» .

(pubblicato su Spicilegia Sallentina n°5, 2009)

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    Il massacro di Martano:
    L’antico castello feudale – Sorpresi da Ciro – Strage degli abitanti – Uccisione della principessa – L’unico superstite.

    Al processo fu domandato a Ciro quanti omicidi aveva commessi. «Chi lo sa!», rispose freddamente, «sessanta o settanta, forse!».
    Uno di questi delitti fece speciale impressione sul generale Church. Non solo una volta egli ne narra i particolari, ma più volte vi fa allusione nelle sue memorie, né è da sorprendere se un tal fatto fece un’incancellabile impressione sulla mente del gentile e cavalleresco Inglese!
    L’antico castello feudale di Martano, egli dice, è situato in cima alla pittoresca cittadella dello stesso nome e domina una stupenda veduta. Al di là delle onde azzurre si scorge l’opposta riva dell’Adriatico e le montagne albanesi in fondo; mentre, vicino, si estendono pianure verdi, boschi di ulivi, vigneti, fino ad Otranto, per quattordici miglia di estensione. Questo antico castello apparteneva alla principessa di Martano, bellissima e giovane orfana di venti anni, sola padrona di un grande patrimonio e di estesi possedimenti, che viveva fra i vassalli nella casa dei suoi antenati, adorata da chi la circondava, pura ed ingenua, felice e tranquilla, e come avrebbe potuto essere altrimenti?
    Essa aveva molti pretendenti, ma per nessuno aveva parola d’incoraggiamento, dichiarando ridendo che le cure per i sottoposti, la compagnia del piccolo cuginetto (un orfanello di sette od otto anni), la gentile tutela del vecchio cappellano e della governante (entrambi suoi lontani parenti e a lei devoti) assorbivano tutto il suo tempo e i suoi pensieri e non desiderava altro.
    Le case della città di Martano erano sparpagliate irregolarmente su e giù, poche sulla strada, essendo quasi tutte isolate e circondate da giardini. Un ripido sentiero conduceva al castello, situato a qualche distanza dal paese e separato da ogni altro edificio.
    Un’oscura notte di dicembre del 1814, gli abitanti del castello di Martano si erano augurati scambievolmente l’abituale felice notte; il vecchio servo aveva, come di consueto, chiuso a chiavistello le grandi porte (poiché, sebbene il fosso fosse stato riempito, e i bastioni demoliti, rimaneva sempre il cortile cinto da muri e i grandi portoni) e tutti andavano pacificamente a letto. La giovane principessa, congedata la cameriera, si disponeva a riposare, quando sentì bussare alla porta dell’appartamento ed entrò la governante.
    «Non dormite, cara figlia? Tanto meglio, poiché dovete vestirvi e scendere a ricevere Sua Eccellenza il comandante della provincia. Questo povero signore è stato trattenuto per via nel recarsi ad Otranto e chiede la vostra ospitalità. Volete Venire?».
    «Certamente, mia cara», rispose la ragazza. «Mandatemi Lucia e vi seguirò subito». «Poiché», osserva il generale Church, «tale è l’ospitalità dei nobili, della borghesia e di tutti gli abitanti delle Puglie in genere, che, a qualunque ora arriviate alle loro case, siete sicuri di essere il benvenuto, e molto probabilmente il padrone di casa stesso scenderà a ricevervi».
    Quindi, come cosa naturale, la principessa si preparava a discendere per andare a ricevere il suo ospite.
    Ahimè! non era un viaggiatore attardato che bussava quella notte alla porta del castello, ma Don Ciro con una banda di quaranta o cinquanta birbaccioni, che facendosi credere il comandante della provincia scusava il suo arrivo a quell’ora, con l’oscurità della notte, coll’inclemenza del tempo, colle condizioni poco tranquille del paese, e colla distanza da Otranto. Fu introdotto: il vecchio servitore tolse gli enormi catenacci nel mentre ordinava agli altri servi sonnacchiosi di far presto, di prendere dei lumi e di avvertire la principessa. I suoi ordini furono tosto obbediti; i servi si affrettarono a discendere l’ampio scalone di pietra. Chi portava torce, chi attizzava il fuoco semispento, chi provvedeva cibi e vini, tutti ansiosi di mostrare il loro rispetto al comandante. Non appena aperte le porte si udì scalpitìo di cavalli e una banda di uomini armati s’inoltrò nella corte. Alcuni rimasero a cavallo a guardia della porta del castello, altri smontarono e seguirono il loro capo, che si faceva strada nell’ingresso. Non vi era possibilità di resistenza, né tempo nemmeno per dare l’allarme. Il vecchio servo fu ucciso nel mentre si avanzava desideroso di accogliere cortesemente gli inaspettati ospiti. Con una mano venivano tolte le torce dalle mani dei servi, mentre l’altra vibrava il colpo mortale. I cadaveri furono gettati nel cortile e gli assassini si precipitarono in casa uccidendo e saccheggiando. Il canuto cappellano, la vecchia governante, i servi, uomini e donne, nessuno fu risparmiato. Quanto alla vaga giovane principessa…
    Essa era in camera, conversando allegramente con le sue cameriere, mentre si preparava a scendere per ricevere il comandante. Il rumore di passi sulla scala, un certo tramestìo e movimento attirò l’attenzione di una delle donne, che uscì di camera per vedere che cosa succedeva. In cima alla scala incontrò un uomo armato. Interrorita domandò.
    «Che comandate, signore?».
    «È questa la camera della principessa?».
    «Sì, che cosa volete?».
    «Niente».
    Indi un grido e la poveretta cadde al suolo trapassata da un pugnale, mentre Don Ciro le passava dinanzi precipitandosi nella camera dove si teneva la principessa, pallida e tremante ma pur sempre padrona di sé, come si conviene a persona della sua nascita ed educazione, senza lagrime o preghiere e rispondendo al breve saluto di Ciro con cortese giovanile dignità. Il colloquio fu corto.
    «Principessa, sappiamo che avete una forte somma di danaro in casa. Dov’è?».
    «Là, in quella cassaforte».
    «Dove sono le chiavi?».
    «Sulla tavola presso il camino».
    «E i gioielli?».
    «In quella cassetta sulla tavola».
    «Ne avete altri?».
    «Non in casa».
    «Benissimo. Lasciatemi vedere».
    Aprì la cassaforte, che conteneva 36,000 ducati, e gli occhi gli si iniettarono di sangue nel mentre faceva scorrere le monete d’oro fra le avide dita; aprì poi la cassetta dei gioielli e ne uscì perle, brillanti e rubini, anelli rilucenti e braccialetti d’oro, che avevano adornato molte belle e nobili dame di secoli passati; indi, orribile a dirsi, ma vero, esclamò ferocemente: «I filosofi ne dicono che il cane morto non può abbaiare», e col pugnale colpì la principessa e la cameriera.
    Nel frattempo il resto della banda aveva finito il suo compito sanguinoso e, trovato vino e cibi e attizzate le legna nel focolare, se la godeva allegramente nella sala macchiata del sangue delle vittime, e tracannava sorsi di vino alla salute della «bella principessa».
    Trascorso un po’ di tempo Don Ciro dette il segnale della partenza e, dopo qualche disputa sulla divisione delle spoglie, se ne andarono dando fuoco al mobilio della sala grande e chiudendo con cura le porte che davano sul cortile affinchè qualche passante non si accorgesse dell’accaduto.
    Ma vi era stato un testimonio non visto del delitto.
    Il ragazzo, cui accennammo, lo sventurato cuginetto e compagno della principessa, era stato svegliato dal grido di agonia della cameriera. La sua camera era attigua a quella della principessa ed egli correva da lei per sapere e per esser difeso nel momento appunto in cui Ciro apriva la porta. Il bambino, terrorizzato, si nascose sotto una tavola coperta da un pesante tappeto frangiato di seta e oro, e là rimase inosservato, spettatore allibito della scena.
    Quanto vi rimanesse non potè dirlo, ma dal suo stupore lo scosse finalmente il fumo soffocante che cominciava a invadere l’appartamento. Tremante e coi denti che gli battevano, non osando volgere gli occhi al bianco ammasso che giaceva immobile al suolo, il povero piccino uscì dal nascondiglio e passò da una stanza silenziosa all’altra, troppo spaventato per discendere, finchè giunse ad una finestra abbastanza vicina al suolo per potersi calare nel giardino; indi, a tastoni, nell’oscurità, scalò un muro basso e si fece strada attraverso sentieri ripidi e sassosi fino alla casa del sindaco di Martano, dove giunse quando appena l’alba grigia di quel giorno d’inverno cominciava a risvegliare gli abitanti dal loro sonno. Senza fiato e tremante il fanciullo non potè dire altro se non che qualcosa di terribile era accaduto al castello: e, dato l’allarme, i cittadini, con a capo il sindaco, si precipitarono verso il castello, che stava là chiuso, in apparenza come se nulla fosse successo.
    Ma le porte cedettero agli sforzi, si spalancarono e… quale orrendo spettacolo si presentò agli occhi dei primi che penetrarono nella grande sala d’ingresso! Non rimaneva altro da fare se non seppellire i morti e destinguere il fuoco. Tutti compresero chi era l’autore di quel nefando delitto. Tutti avevano amato la bella principessa e di tutto cuore avrebbero veduto punito l’assassino. Il piccino potè poi dare una descrizione di Don Ciro e dell’accaduto. Fra i mucchi di cadaveri distesi al suolo, un servo e la cameriera che per prima aveva parlato con l’abate respiravano ancora, e, portati in città e medicati con cura, vissero abbastanza per firmare una deposizione davanti ai magistrati. Ma qui ebbe termine l’affare. Ciro Annichiarico si era circondato talmente dalla fama di stregone che il popolo non osava nemmeno maledirlo ad alta voce per tema che gli spiriti a lui familiari non gli ripetessero ciò che era stato detto.

    Tratto da: Riccardo Curch, Brigantaggio e società segrete, Capone Editore-Edizioni Del Grifo – http://www.sataterra.blogspot.it/2011/10/il-massacro-di-martano-lanticocastello.html

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